international analysis and commentary

L’India, gli USA e il difficile multipolarismo asiatico

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Dopo la politica che ha segnato l’apertura al Sudest asiatico e dopo la creazione di un rapporto privilegiato con gli USA, l’India si trova ora di fronte a una scelta decisiva: come impostare i rapporti con “l’altra metà del cielo”, cioè con i paesi che fanno parte della SCO, l’Organizzazione di cooperazione di Shanghai, guidata da Cina e Russia. In gioco non sono soltanto gli equilibri strategici del prossimo decennio in Asia, ma l’assetto dell’intero sistema multipolare internazionale.

Per alcuni la SCO (i cui membri fondatori sono Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Russia, Tagikistan e Uzbekistan) è poco più di un forum di dibattito, un involucro privo di concreti contenuti basato su un assunto geopolitico astratto e poco credibile, l’Eurasia. Anche i timori di chi la vede come una sorta di contraltare della NATO sembrano fuori luogo: l’idea di costituirsi in una vera alleanza militare è fuori dalle sue prospettive. Quanto a costituire un cartello energetico alternativo all’OPEC, appaiono troppo diversi gli interessi tra produttori, Russia in testa, e un grande consumatore come la Cina. Ma la SCO non può non costituire un punto di riferimento importante in un’Asia dove sempre più insistentemente si ragiona in termini di “nuova guerra fredda”. Il suo dato distintivo, infatti, è costituito dal marchio di contraltare alla potenza americana. Ciò non significa che chi ne fa parte sia “ostile” agli USA (il miscuglio di bipolarità e multipolarità che caratterizza le relazioni internazionali ha oggi reso obsoleto tale concetto), ma certo la SCO si basa sulla convinzione che l’Asia non abbia bisogno dell’ombrello americano per garantirsi stabilità e sviluppo. Una particolarità non da poco, se si considera che in modo formale o informale tutte le altre associazioni regionali asiatiche prevedono la presenza degli USA.

La circostanza che al vertice di Astana (Kazakistan), svoltosi il 15 giugno, sia stata messa all’ordine del giorno l’adesione a pieno titolo dell’India (oggi solo osservatore) risulta pertanto una novità rilevante. È vero che la sintonia di intenti di breve e medio termine tra USA e India sembra molto forte. Ma questa sintonia non attenua – e per molti versi amplifica – un dilemma fondamentale per i politici indiani di ogni orientamento: come allinearsi alle posizioni americane e trarne il massimo vantaggio (per esempio in termini di cooperazione in campo nucleare) senza ammettere una forma di subalternità. Un rapporto subordinato infatti collide con quel ruolo di grande potenza in ascesa che non è più solo una convenzione o un’aspirazione politica, ma è ormai avvertita come una esigenza economico-finanziaria.

Il segretario di Stato Hillary Clinton, il 20 luglio a Chennai (città simbolo dell’amicizia tra i due paesi), ha lanciato un’esortazione allettante: “It’s time to lead”. E ha spiegato che si tratta di creare una partnership “per il nuovo secolo” che “stabilizzi l’Asia e metta al riparo dal crescente dominio cinese” pur nell’ambito di un “coordinamento degli sforzi” con Pechino. Ma questi inviti, tanto più significativi in quanto si affiancano all’appannamento dei rapporti tra USA e Pakistan, potrebbero non bastare a spingere l’India a una scelta di campo senza ammortizzatori (del tipo, appunto, della SCO). L’India infatti deve accettare gli spazi che le vengono assegnati nella relazione privilegiata con Washington: quelli di un alleato fidato che dall’Afghanistan al Sudest asiatico aiuti l’America a diffondere i valori e i principi più cari all’Occidente con l’autorevolezza della più antica delle civiltà orientali (a cominciare dalla democrazia parlamentare) e a difendere consolidati interessi strategici. Detto in altri termini, si tratta di una reinterpretazione americana di quello “sguardo verso Est” che per Nuova Delhi negli anni Novanta doveva sancire l’uscita dalla guerra fredda e che invece viene ora proposto proprio in chiave di nuova guerra fredda: contenimento della Cina e stabilità garantita dai pilastri filoamericani, ovvero Giappone e (appunto) India, ai quali viene chiesto un crescente impegno militare ad ampio raggio.

Il fatto è che a Nuova Delhi molti coltivano altre ambizioni, nella convinzione che tra pochi decenni l’India occuperà il primo posto al mondo in termini d PIL. Gli opinion makers ormai fanno a gare nel battere sul tasto della necessità di cambiare gli schemi e di pensare da grande potenza, non soltanto su scala regionale. L’India – questo il ragionamento – si appresta ad essere una potenza globale dal punto di vista economico; lo deve diventare anche politicamente, come sta facendo la Cina. Anzi solo rompendo il guscio della propria proverbiale introversione essa può garantirsi ulteriore crescita economica. Ed è a questo punto che si manifesta lo iato con gli USA.

Già oggi l’allineamento tra le due diplomazie non può cancellare ogni divergenza. Si pensi al rifiuto da parte di Nuova Delhi, non ancora digerito a Washington, di rilanciare il proprio potenziale di attacco aereo con un maxi acquisto di caccia americani dell’ultima generazione. Inoltre l’India, che riceve dall’Iran il 12% del suo fabbisogno di petrolio, fatica a seguire la Casa Bianca nella sua intransigenza contro i programmi nucleari di Teheran, vedendo nelle sanzioni un oggettivo pericolo per il suo approvvigionamento. Si tratta di attriti fisiologici, e dunque probabilmente superabili. Il problema è che all’orizzonte potrebbero esserci contrasti ben più profondi, collegati al fatto che l’India ha (e a maggior ragione avrà in futuro) nella Cina il suo principale partner commerciale; inoltre l’India, come la Cina, avverte la necessità di una revisione profonda di quel sistema di relazioni internazionali imposto dall’Occidente in cui i BRIC si sentono ingabbiati. D’altra parte, la stessa contiguità geopolitica può spingere Nuova Delhi e Pechino alla ricerca di una stabilità condivisa per assicurarsi gli approvvigionamenti energetici: questo obiettivo strategico è prioritario anche rispetto alla libertà di navigazione tanto sbandierata da Washington in contrasto alle pretese cinesi di sovranità sulle zone contese del Mar Cinese meridionale (pretese alle quali Nuova Delhi ha peraltro prestato assai poca attenzione). Quello che conta di più infatti è un rapporto stabile con Pechino che porti alla creazione di una adeguata rete di oleodotti, a una leale competizione nella penetrazione in Medio Oriente e Africa, a forse a intese per contrapporsi ai produttori di petrolio. In sostanza, a Nuova Delhi ci sono motivi per dubitare che il progetto strategico proposto dalla Clinton sia la scelta migliore. E la richiesta di aderire alla SCO è quanto meno un segnale di questi dubbi.

Inoltre, c’è un punto di incontro naturale tra gli obiettivi prioritari dell’India e quelli della SCO. Fin dalla sua nascita dieci anni fa, questa ha messo a fuoco tre “forze del male” da combattere con ogni mezzo: terrorismo, separatismo ed estremismo religioso. L’India non può non essere interessata a un coordinamento degli sforzi (anche con esercitazioni comuni) e a uno scambio di informazioni al riguardo. Anche l’Area di libero scambio che entro il 2020 dovrebbe unire tutti i membri della SCO è allettante perfino a fronte dell’offerta americana di ammissione all’APEC. Problematico, piuttosto, è trovare un’intesa sull’Afghanistan, poiché l’India vede con favore la creazione di basi militari permanenti americane in quel paese dopo il 2014, mentre lo SCO vi si oppone risolutamente. Ma non è irrilevante che l’Afghanistan abbia chiesto proprio al vertice di Astana lo status di osservatore della SCO.

Che poi nell’immediato l’ingresso indiano nella SCO sia uno smacco per Washington è tutto da dimostrare. Al contrario, se ben gestito, questo sviluppo del multipolarismo asiatico potrebbe portare benefici agli Stati Uniti: tramite l’India, potrebbero vedere facilitata la loro penetrazione in Asia centrale, evitare l’adesione alla SCO dell’Iran (osservatore sempre in attesa di essere ammesso a pieno titolo), e ottenere che sia messa la sordina alle più dure critiche antiamericane come quelle espresse ad Astana contro lo scudo missilistico.