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Limiti e dilemmi dell’ONU in Siria

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La 70esima sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che si è aperta il 15 settembre, e come sempre ha visto ai primi di ottobre i principali leader mondiali alternarsi nel dibattito generale, non segna solo un importante anniversario.

I complessi scenari di crisi attuali – dei quali la Siria rappresenta un simbolo assai scomodo – hanno infatti acutizzato i limiti e le contraddizioni dell’ONU. Se da una parte si è tentato di rinnovare il dibattito sulla necessaria riforma dell’organismo, dall’altra le differenze (culturali, di metodo, di strategia) tre le diverse potenze, grandi e regionali, si è fatta ancor più manifesta rispetto al passato.

Proprio lo scenario siriano ne è probabilmente la miglior cartina di tornasole. Qui il soft power della diplomazia USA a guida Barack Obama si sta confrontando col dinamismo carismatico della leadership di Vladimir Putin. Mentre la diplomazia europea cerca un’identità e una linea comune mentre altre potenze regionali – vedi Turchia o Arabia Saudita – giocano una partita basata su criteri di mero opportunismo. Peraltro, con onestà intellettuale, chi vorrebbe oggi trovarsi al posto della Turchia?

L’unica novità in questo palcoscenico, che ricorda i personaggi di una pièce teatrale dove ciascun protagonista ricalca un preciso tipo umano, è stata la figura di papa Francesco, che peraltro in sede ONU può essere unicamente portatore di una condivisibile, quanto generica, moral suasion.

Gli altri personaggi, come appunto accade a teatro, recitano sulla scena il loro ruolo, mentre quello che accade fuori dallo sfondo principale (gli incontri riservati a margine dell’Assemblea) sono il vero momento di sostanza.

Tra Obama e Putin è accaduto esattamente questo: ossia in contemporanea ai rispettivi interventi nel corso del dibattito generale (ad alto tasso di retorica) le cose, per iniziativa unilaterale russa, iniziavano concretamente a muoversi nello scenario di guerra siriano. E non c’è dubbio che il Pentagono sia rimasto spiazzato dall’iniziativa di Mosca.

Non è la prima volta che Putin anzitutto agisce, poi comunica. Successe con la Georgia nel 2008, è successo con la Crimea nel 2014. La differenza col metodo USA – una democrazia sotto la pressione dei media, dell’opinione pubblica e di seri sistemi costituzionali di vigilanza – è palese: per Washington prima occorre creare il consenso e la base giuridica (amministrazioni precedenti a quella Obama hanno dimostrato come in assenza di reali motivazioni, queste possono essere create artatamente), poi agire.

In Siria, comunque, è un’evidenza assoluta che non s’inizierà a fare sul serio sino a quando non verrà istituita una no-fly zone. Sarà quello il segnale, la parola d’ordine. Il resto saranno solo timidi tentativi, vuote dichiarazioni di principio e ulteriore logoramento della Turchia – il paese più minacciato dal conflitto dopo la Siria stessa.

Lo strumento della no-fly zone – divenuto ormai fondamentale per qualsiasi intervento che voglia avere una logica – si compone tuttavia di due momenti: quello militare e quello politico-diplomatico. Se per il primo servono navi lanciamissili e aerei di ricognizione, per il secondo occorre il consenso diffuso delle potenze coinvolte e una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza.

Dal momento che Obama non può – o non può ancora – far digerire a Teheran navi americane in quella porzione di Mediterraneo, ci ha pensato Putin. Dai primi giorni di ottobre un incrociatore lanciamissili russo è di fronte alle coste di Latakia. Il Moskva non viaggia solo: cinque navi d’appoggio e un sottomarino d’attacco completano la flotta russa di fronte alle coste siriane.

La mossa di Mosca – l’ultima dopo i corposi raid aerei e l’invio di un contingente imprecisato di forze di terra – ottiene due risultati. In primo luogo istituisce una parziale ma significativa no-fly zone mettendo ordine nella confusione dei cieli (l’intervento francese, le proteste turche per le violazioni del proprio spazio da parte russa, le missioni americane contro l’ISIS, l’intervento italiano “sì-no-forse”). In secondo luogo, spinge a sciogliere con urgenza l’impasse diplomatica di una comunità internazionale che si riunisce all’ONU uscendone con un nulla di fatto e con la dichiarazione “non c’è soluzione militare a questo conflitto” del Segretario Generale Ban Ki-moon. Un’affermazione che è assai meno retorica di quanto possa apparire nell’immediato.

Putin ottiene probabilmente un terzo risultato, quello di spingere gli Stati Uniti a un coinvolgimento maggiore. Il notevole patrimonio conseguito da Obama con l’accordo sul nucleare iraniano mette gli USA, per la prima volta nella storia, in una posizione d’interlocuzione privilegiata col mondo sciita, pur mantenendo relativamente solida l’alleanza con l’Arabia Saudita (se su Siria, Egitto e Yemen Washington e Riyad sono concordi, per l’Iran, la Palestina e le politiche petrolifere rimangono distanze critiche).

Il soft power di Obama ha tempi più lunghi rispetto al dinamismo muscolare di Putin, ma entrambi potrebbero convergere sul medesimo punto e la no-fly zone parziale e temporanea potrebbe estendersi e divenire de facto stabile. Perché questo avvenga occorre ancora del tempo: Ban Ki-moon ha registrato e reso esplicita, seppur in linguaggio diplomatico, la distanza tra le parti che al momento impedisce una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Il placet russo in questa sede, che può esser in definitiva solo incoraggiato dagli USA, permetterebbe anche a Washington di uscire dall’ambigua posizione rispetto alle forze laiche (o semi-laiche) anti-Assad addestrate a suo tempo e finite nel mirino dei raid di Mosca.

Questa strategia russo-americana allenterebbe la pressione sulla Turchia, e farebbe anche rientrare gli interventi francesi sotto un quadro multilaterale. È stato acutamente osservato che la Libia (per la quale fu appunto istituita la no-fly zone grazie soprattutto alle capacità americane) non può essere una gabbia mentale; gli errori del passato non possono divenire la base di errori odierni.

Ora, per chiudere il ragionamento, occorre chiedersi se l’ONU sia l’organismo internazionale in grado di gestire questa situazione, come molte altre del resto: il mondo purtroppo non si limita alla sola, drammatica, Siria; a riprova Obama e Putin hanno parlato, durante il loro incontro – più di Ucraina che di Siria.

Occorre certo che l’ONU mantenga un’intangibile credibilità, a partire da domande di senso comune: se è stato possibile avere una Risoluzione sulla Libia, perché dopo quattro anni di conflitto non è possibile averla sulla Siria? E non può finalmente accadere che l’Organizzazione si riformi secondo linee che animano il dibattito da almeno 15 anni ma non hanno mai portato a significativi mutamenti?

Le riforme sostanziali sono quelle della composizione del Consiglio di Sicurezza e del diritto di veto. L’ultima modifica alla carta è del 1965, quando i membri non permanenti del Consiglio, eletti ogni due anni, passarono da 11 a 15. Certo è arduo pensare che avere l’UE (la frammentata, indecisa, tecnocratica Europa) nel Consiglio di Sicurezza costituisca una svolta, anzi. La riforma del diritto di veto ha  peso ancora maggiore e proprio per questo è altrettanto complessa da attuarsi.

L’Europa, da parte sua, deve scrollarsi di dosso quella che potremmo chiamare “Sindrome diplomatica dei Balcani” quando a risolvere l’inazione nell’ex-Jugoslavia intervenne la NATO, e l’unanimità degli analisti del Vecchio Continente salutarono la soluzione come un modello; ossia un mondo dove la NATO risolvesse, in tempi rapidi e con le dovute coperture giuridiche d’ingaggio, quelle crisi che la diplomazia da sola (e certo la UE da sola) non poteva risolvere.

Era il mondo del dopo-Muro di Berlino, a Mosca Vladimir Putin non era il leader indiscusso, la potenza cinese doveva ancora mettersi in moto (e silenziosamente anche quella iraniana) mentre la Turchia sembrava dover elemosinare un’adesione all’UE. La NATO non può, evidentemente, svolgere nel mondo attuale la funzione che svolse nei Balcani, e in ogni caso la NATO deve essere uno strumento per l’ONU, e non vicariarne la suprema autorità per risolvere le situazioni di stallo.

Sostenere che l’Europa debba “trovare una sua politica estera” è ormai una frase fatta che non ha molto senso. Più banalmente potrebbe porsi da mediatrice, e l’ONU è il solo luogo deputato per questa mediazione, affinché USA e Russia (che già dialogano grazie a Obama) trovino strategie comuni e inclusive sui temi caldi dell’agenda: è così per il Medio Oriente, per la lotta al terrorismo internazionale, come anche per l’Ucraina.

È questo il momento migliore. Tra un anno alla Casa Bianca cambierà inquilino e potremmo trovarci a rimpiangere un soft power finora troppo criticato.