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Libia e ISIS: l’Italia alla ricerca del sostegno europeo

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Diversi episodi violenti a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi sono connessi da un filo: quello del cosiddetto “Stato Islamico”, cioè un movimento non del tutto coerente né unificato (dunque non uno Stato nel senso proprio del termine) ma certo una minaccia grave e ormai immediata. L’Italia è stata ora direttamente indicata come un bersaglio, proprio dagli organi di comunicazione dell’ISIS/ISIL. Ciò non è affatto sorprendente e conferma che il livello di allerta deve essere molto alto.

L’ultimo episodio sanguinoso di Copenaghen – di nuovo con obiettivo la libertà di parola e di opinione – ci ricorda che la battaglia è transnazionale e apparentemente senza confini. Eppure, i confini statuali e il ruolo dei governi sono tuttora importanti, perché i confini possono essere almeno in parte difesi con strumenti ben collaudati. E le misure prese a livello nazionale non sono in contraddizione con una stretta collaborazione tra governi alleati, legati peraltro da una lunga consuetudine di operazioni e addestramento congiunti.

Bene ha fatto allora il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, nei giorni scorsi, a ricordare in modo esplicito che la Libia è un problema europeo, senza per questo negare una primaria responsabilità italiana ma chiedendo il pieno sostegno dei nostri principali partner. Mentre sulle specifiche modalità di intervento in mare (Mare Nostrum, Triton, o altre forme da sperimentare) si possono avere legittime opinioni diverse, non deve esservi dubbio sul fatto che sulle coste meridionali del Mediterraneo l’Europa ha interessi decisivi, ancor più che in passato. Il continente – volente o nolente – è già coinvolto in un pericoloso conflitto che ha prodotto alcune fiammate nelle nostre grandi città e che non accenna a spegnersi. Vanno prese in considerazione opzioni di intervento verso la Libia e sul territorio libico che tutti avrebbero preferito evitare.

È necessario che gli italiani leggano con attenzione la recente dichiarazione, precisa e ponderata, del Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni: “Già ora l’Italia è in prima linea nella lotta al terrorismo sul piano militare, politico, culturale. Questa battaglia dobbiamo farla anche in Libia di fronte alla minaccia terroristica che cresce a poche ore di navigazione. Certamente in una cornice ONU, ma non possiamo sottrarci alle nostre responsabilità per ragioni geografiche, economiche e di sicurezza”.

Se poi sia stata davvero questa affermazione a causare un “ufficiale” atto di accusa da parte dell’ISIS, è poco rilevante. L’Italia non era certo più al riparo fintanto che lo scontro rimaneva non dichiarato, e dunque la chiarezza farà progredire un dibattito consapevole.

Per una volta, è opportuno anche prendere sul serio, in modo quasi letterale, una metafora: quella adottata ancora dal Ministro per descrivere la sfida dell’Italia, cioè l’esigenza di navigare in un “mare in tempesta”. Come popolo di marinai ed esploratori, sappiamo quanto sia difficile, ed è giusto che abbiamo rispetto del pericolo piuttosto che ignorarlo. Proprio per questo, non è il momento di minimizzare i rischi o indurre a un falso senso di sicurezza, perché le coste libiche (e non soltanto) sono fuori controllo e sono in parte finite sotto l’influenza di forze a noi apertamente ostili. Il nostro mare è in tempesta, ma dobbiamo continuare a navigare per evitare che i peggiori pirati arrivino sulle nostre coste o vi facciano arrivare le armi (di vario tipo) per i nostri nemici.

È intanto importante continuare ad analizzare la natura della minaccia, che peraltro ha la capacità di evolvere rapidamente nelle modalità di azione: sappiamo che abbiamo di fronte (e in casa) una galassia di gruppi anche ristretti ma potenzialmente ben collegati. I singoli operatori (propagandisti, attivisti, veri e propri terroristi) hanno a disposizione una sorta di rete di supporto on demand, per mutuare un modello dal mondo del business.  La concatenazione tra vari episodi recenti è chiara, da Parigi a Tripoli fino naturalmente alla Siria e all’Iraq, anche se non presuppone una regia singola, rivendicata o occulta che sia. Dunque, soltanto un sistema di contrasto e prevenzione che diventi sempre più capillare e flessibile potrà ridurne la pericolosità e forse interromperne i canali di rifornimento. Si tratta di sfruttare tutti i punti di forza dei paesi occidentali e delle società aperte: ricchezza materiale e tecnologica, inventiva e creatività favorita dalla libertà di pensiero, abitudine a coordinare gli strumenti civili e militari di Stati amici – tra i quali, non dimentichiamolo, gli USA.

L’impegno italiano – sul piano dell’intelligence e delle forze di polizia, su quello della politica e dei mezzi di informazione, probabilmente su quello militare nell’adeguata cornice internazionale – dovrà essere forte e richiederà compattezza nell’opinione pubblica. Richiederà anche, come i governi di Roma stanno sottolineando senza sosta da almeno quattro anni, che l’Europa sia con noi, in prima linea e non in una sorta di retroguardia riluttante e quasi indispettita.

Una versione di questo articolo è stata pubblicata sul quotidiano Il Mattino.