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Libertà e disuguaglianza: il domino mediterraneo. Colloquio fra Marta Dassù e Jean-Paul Fitoussi

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Jean-Paul Fitoussi è la persona adatta per parlare della scintilla del domino nord-africano: il caso della Tunisia, là dove tutto è cominciato. Fitoussi, che insegna economia a Sciences-Po a Parigi e alla Luiss di Roma, è nato in Tunisia nel 1942: “Ho lasciato il mio paese nel 1961 e non sono più tornato per trent’anni. Perché non era libero. E oggi, quello che la gente vuole è esattamente questo: la libertà”.

Marta Dassù Non c’è accordo sulle cause delle proteste maghrebine. C’è chi pensa che l’aumento del prezzo dei beni alimentari sia stato determinante: si tratterebbe di una nuova “rivolta del pane”. E c’è chi guarda invece alla disoccupazione giovanile o alla voglia di democrazia.

Jean-Paul Fitoussi Nella protesta tunisina queste cause si sono sovrapposte. Ma io la definisco una rivoluzione democratica, paragonabile al 1989 europeo. La Tunisia è un paese che, grazie alle riforme di Burghiba degli anni Cinquanta, aveva due dei pilastri essenziali delle società democratiche: l’uguaglianza di diritti fra uomini e donne e l’istruzione obbligatoria fino a sedici anni. Sono elementi che hanno consentito una crescita economica abbastanza sostenuta, del 4-5% l’anno; con la nascita di una borghesia moderna. Un dato è indicativo: più dell’80% dei tunisini è proprietario della casa, come in Italia. Una società del genere non poteva più coesistere con l’altra faccia della medaglia: un regime dittatoriale, la corruzione estrema della famiglia di Ben Ali, la mancanza della libertà di stampa, la repressione di qualunque forma di opposizione. Ti racconto un aneddoto. Qualche anno fa ho incontrato il principale consigliere di Ben Ali, che mi ha chiesto cosa pensassi della stampa tunisina. Ho risposto che non la leggevo proprio, visto che in prima pagina c’erano solo le foto del presidente e che notizie vere non esistevano. Sai cosa mi ha risposto? È vero, non abbiamo giornalisti come si deve. Insomma: è a tutto questo che la classe media si è ribellata. La voglia di libertà è stata più importante dei problemi di reddito. D’altra parte, l’aumento dei prezzi del cibo ha permesso di aggiungere a una protesta borghese, giovanile e intellettuale anche gli strati poveri della popolazione. Il fondamentalismo islamico non c’entra, almeno in Tunisia. È stata una rivolta per avere più liberta. L’islamismo sarebbe un incubo.

MD Mi spiace di smorzare il tuo entusiasmo, Jean-Paul. La sensazione, almeno dalla nostra riva del Mediterraneo, è che per ora i tunisini e gli egiziani si siano solo liberati dei vecchi dittatori; un vero e proprio regime change non c’è stato. Per ora è l’esercito a garantire la stabilità e mi sembra presto per parlare di una rivoluzione democratica riuscita. Tanto è vero che, proprio in Tunisia, la protesta è ricominciata. E il premier, legato al vecchio regime, ha dovuto dimettersi.

JPF Essere pessimisti è sbagliato, in questo momento. Almeno per quel che riguarda la Tunisia, sta nascendo un nuovo paese. Certo, ci vorrà tempo, visto che Ben Ali aveva cancellato qualunque opposizione, aveva fatto tabula rasa. Ma nella testa della gente deve nascere un paese democratico. Un’Europa che funzionasse aiuterebbe la Tunisia a gestire la transizione verso una vera democrazia. Lo abbiamo fatto per i paesi dell’Est, dopo il 1989. Verso l’Est, l’Europa è stata capace di avere una politica. Verso il Mediterraneo non la ha. E onestamente non si capisce perché: investire in questi paesi sarebbe, ragionando da economisti, un investimento modesto e ad altissimo rendimento.

MD Dal punto di vista geopolitico è certamente così, basti guardare al problema migratorio. Ma l’Europa sembra esitare: è incerta se difendersi o aiutare. È incerto perfino il tuo paese di adozione, la Francia, stretta fra l’abbraccio a Berlino e una politica mediterranea che non ha funzionato affatto. Non sono convinta, tuttavia, che affrontare l’89 del Maghreb ci costerebbe così poco: la crisi del debito sovrano, dopotutto, riduce i margini.

JPF Parlare di costi eccessivi non ha senso. Aiutare la Tunisia ci costerebbe circa 20 miliardi di euro, un quinto di quello che abbiamo allocato per la Grecia. E se gli americani aiutassero la gente, in Egitto, invece che i militari, spenderebbero di meno. Non stiamo parlando di un Piano Marshall: il problema non è la “ricostruzione”, è la costruzione delle condizioni per la democrazia. Qui si misura tutta l’impotenza europea. La realtà è che la Germania non ha nessuna voglia di occuparsi di un Club Med allargato; ne ha già abbastanza della Grecia e del Portogallo. Ci vorrebbero la Francia e l’Italia. E per favore non guardiamo alla Turchia come possibile “surrogato” dell’Europa: a questi paesi non piacerebbe affatto avere a che fare con Ankara invece che con Bruxelles. La posta in gioco, per l’Europa, è molto alta: se non aiuteremo noi il Maghreb, i soldi verranno dalla Cina e dai sauditi, con tanti saluti alla democrazia.

MD Guardiamo al gioco globale da un altro punto di vista. Che effetto avrà lo tsunami del Maghreb sull’economia internazionale? Secondo i dati che abbiamo discusso in un recente convegno dell’Aspen, l’aumento del prezzo delle commodities (prima il pane poi il petrolio) produrrà inflazione e comprimerà la crescita. Giulio Tremonti vede in quest’ultima crisi un “terzo mostro”, dopo lo shock finanziario del 2008 e la crisi del debito sovrano in Europa.

JPF Ci sarà un effetto inflattivo ma sarà modesto: dal 2 al 4-5%, non al 15%. La differenza, rispetto allo shock petrolifero dei primi anni Settanta, è che allora c’era piena occupazione; oggi la situazione è diametralmente opposta, specie fra i giovani. Su entrambe le rive del Mediterraneo – certo in modo molto più grave a Sud – esiste un problema assai grave di disoccupazione giovanile. Fra l’educazione e il lavoro non esiste più una relazione diretta; e questo provocherà tensioni sociali anche in Europa.

Il problema, inoltre, è che l’aumento dei prezzi di cibo e petrolio colpirà di più gli strati che sono già più poveri. Aumenterà la disuguaglianza, che è la causa vera della crisi del 2008. I tre mostri di cui parla Tremonti hanno tutti alle spalle questo stesso problema: oltre un certo livello di disuguaglianza, l’economia non riesce più a crescere. 

Una versione ridotta di questa intervista è uscita sul quotidiano La Stampa