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Lezioni chiave della crisi dell’euro

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Quali che siano le decisioni che verranno adottate domenica al vertice dei leader della zona euro, sono tante le lezioni che si possono trarre dalla lunga vicenda che ci ha portato da una crisi localizzata e tutto sommato gestibile (la Grecia a inizio 2010) a una vera e propria crisi sistemica con implicazioni globali.

Fra queste, una riguarda senz’altro il modo in cui la gestione della crisi è stata politicizzata: dal febbraio dell’anno scorso, appena poche settimane dopo l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, il neonato Consiglio europeo presieduto da Herman van Rompuy è diventato il palcoscenico principale delle discussioni e deliberazioni in materia. Intendiamoci: il Consiglio europeo esisteva già da decenni, come formazione a più alto livello del Consiglio dei ministri UE – ma con il nuovo trattato ha avuto la sua consacrazione come istituzione a sé stante, con un presidente semi-permanente.

Questa politicizzazione della gestione di crisi ha avuto ed ha tuttora un aspetto molto positivo: quando le decisioni riguardano il benessere e il futuro di milioni di cittadini UE, è cosa buona e giusta che ad assumersene la responsabilità siano i più alti rappresentanti eletti dei vari paesi membri. Il valore aggiunto in termini di legittimità e credibilità è del tutto evidente, e tangibile.

D’altra parte, proprio il fatto che i leader debbano a) rispondere a 27 opinioni pubbliche distinte, b) operare in 27 sistemi politici diversi l’uno dall’altro, con cicli elettorali sovrapposti, e c) decidere fra loro all’unanimità, non ha certo reso la gestione della crisi della zona euro un modello di rapidità, efficacia e lungimiranza. Pressioni politiche e scadenze elettorali domestiche, offensive populiste, e le profezie autoavverantesi dei mercati finanziari internazionali hanno tutte contribuito a indebolire la risposta collettiva dell’UE alla crisi. Ma è legittimo sostenere che la riforma complessiva della governance della zona euro che è stata già in parte messa in atto durante la crisi (sono molte le decisioni adottate sotto l’incalzare dei mercati che non erano state invece considerate urgenti o accettabili prima) e che dovrebbe essere completata fra il 23 ottobre e i mesi a seguire spetta, per la sua portata e le sue implicazioni, ai leader politici europei.

C’è però anche un’altra lezione che la crisi ci ha insegnato, e che stiamo forse imparando. Una volta stabiliti in questo modo i principi, i parametri e le regole dell’azione comune (in questo caso, il sempre più stretto coordinamento delle politiche fiscali), la sua implementazione – che comprende monitoraggio e sorveglianza, early warning e, se necessario, imposizione di misure correttive o addirittura punitive – non può e non deve essere lasciata al livello intergovernativo.

L’inizio del non rispetto delle regole dell’Unione monetaria risale, come ci ricorda spesso Mario Monti, al Consiglio ECOFIN del 2003 che decise di accantonare le raccomandazioni della Commissione sul deficit eccessivo di Germania e Francia, creando un precedente che avrebbe poi fatto scuola. Il vincolo dell’unanimità, che pone problemi già a livello di presa delle decisioni (come nel caso della Slovacchia nei giorni scorsi), ne crea ancora di più a livello di enforcement. E i tempi di maturazione delle crisi sono comunque tali da richiedere una rapidità di (re)azione che i meccanismi politici e le disposizioni legali attuali rendono quasi impossibile: non è un caso che l’istituzione rivelatasi più efficace nella gestione della crisi – anche a costo di forzare il proprio mandato e svolgere funzioni di supplenza – sia stata la BCE, cioè la più tecnocratica e “a-politica” delle istituzioni UE.

Non è insomma un caso neppure che, dopo la fase di politicizzazione intergovernativa dell’ultimo anno e mezzo, si stiano moltiplicando le richieste di un rilancio delle istanze ‘neutrali’ e dei poteri sovranazionali. Questo rilancio è in parte già iniziato con la creazione di una serie di agenzie specializzate in materia di sorveglianza bancaria e regolazione finanziaria, e della stessa FESF. Ma è proprio di questi ultimi giorni l’intervento del primo ministro olandese Mark Rutte, sul Financial Times, che ha proposto di dare alla Commissione europea poteri straordinari – paragonabili a quelli che le sono stati conferiti vent’anni fa in materia di concorrenza, e possibilmente concentrati in un “super-commissario” – per far rispettare gli impegni di politica fiscale assunti dai governi. E Mark Rutte – che ha ricevuto l’appoggio del premier finlandese e, pare, perfino di “Merkozy” – guida un governo molto attento alla tutela (e perfino al recupero) della sovranità nazionale e al rafforzamento del principio di sussidiarietà.

Nello stesso senso vanno del resto le considerazioni fatte giorni fa da Jean-Claude Trichet sulla necessità di rivedere i trattati per inserire forme di coercizione verso chi non rispetta i patti. E soprattutto quelle del presidente José Manuel Barroso al Parlamento europeo, prima sul ritorno al “metodo comunitario” e sull’urgenza di un nuovo “momento federatore”, poi sulla roadmap in cinque punti per far fronte in modo coeso ed efficace alla crisi in corso e preparare un futuro di stabilità ma anche di crescita.

Difficile dire se e fino a che punto ciò richieda una radicale revisione dei trattati in vigore. Molto si può fare già ristabilendo fiducia reciproca fra i governi e parlando chiaramente ai cittadini. Una riforma complessiva dei trattati è prospettiva che oggi – dopo il decennio che abbiamo alle spalle, fra tentativi ‘costituzionali’ e referendum a ripetizione – fa tremare le vene e i polsi, e rischia di assorbire molte energie politiche in cambio di un esito incerto. Ma non dovrebbe essere impossibile trovare altre soluzioni, anche legali, capaci di vincolare i paesi della zona euro a una maggiore disciplina come premessa per una maggiore integrazione. I trattati ne prevedono alcune, e non ne vietano esplicitamente altre. La chiave sta nel trovare un’intesa politica accettabile e credibile per tutti, e nell’affidarne poi l’esecuzione alle istituzioni che ne hanno le capacità e l’autorità.


Antonio Missiroli è Consigliere presso il Bureau of European Policy Advisers (BEPA) della Commissione Europea a Bruxelles. Questo articolo è scritto a titolo personale e non esprime necessariamente la posizione della Commissione.