international analysis and commentary

L’Europa orientale tra Est e Ovest

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La parte orientale del continente europeo è spesso apparsa procedere “a rimorchio” della storia, piuttosto che esserne un motore. Ma lunghe fasi di assenza dai principali eventi mondiali si sono sempre alternate a rapidi e improvvisi ritorni al centro della scena. Tanto inattesi, questi ultimi, quanto carichi di conseguenze ben al di là dello spazio in cui avvenivano: si pensi solo ai fatti del 1914 o del 1989.

L’anno appena trascorso ha visto quel quadrante d’Europa ospitare nuovamente uno dei fronti caldi del mondo: il rovesciamento del Premier ucraino Viktor Yanukovich ha premesso a una crisi “da manuale”, con gravi risvolti sociali e politici, economici e militari. Ovviamente ci si è interrogati sui possibili esiti della partita tra le maggiori potenze coinvolte: Federazione Russa, Stati Uniti, Unione Europea.

Tale questione ne sottintende però un’altra, altrettanto fondamentale per gli equilibri geopolitici, ma meno esplorata. E cioè che una costante storica dell’Europa centro-orientale – quella parte d’Europa a est di Germania, Austria e Italia e a ovest della Russia – è quella di non essere in grado di produrre centri di potere abbastanza solidi da permettere di affrontare da protagonisti le vicende, spesso tragiche, in cui i suoi popoli sono coinvolti. A 25 anni dalla caduta del Muro, è questa una caratteristica destinata a confermarsi?

Non bisogna dimenticare un dato fondamentale: la matrice occidentale di moltissime delle coordinate politiche attraverso cui osserviamo quest’area geografica. Lo stesso concetto di “Europa orientale”, riferito all’universo delle repubbliche socialiste sotto l’influenza dell’URSS, è nato con la divisione del continente in due blocchi dal 1945 in poi. Benché sia oggi rifiutato dagli abitanti di quei Paesi, resta di uso condiviso in “Occidente”, in quanto adatto a descrivere una percepita diversità culturale e storica, più che geografica.

Molti infatti condividono ancora l’antico quanto radicato punto di vista secondo il quale l'”Europa” coincide con lo spazio culturale latino e germanico, e con le tradizioni religiose cattolica e protestante; ciò che è fuori – l’elemento russo, slavo, ortodosso – è in realtà una sostanza aliena, tutt’al più assimilabile. D’altronde, stessa matrice esterna aveva avuto il termine “Balcani”: inventato nell’Ottocento dai viaggiatori inglesi che attraversavano le parti d’Europa occupate dai turchi, si è caricato poi di un particolare significato collettivo (e negativo, nel termine “balcanizzazione”) durante i terribili conflitti dei decenni successivi.

L’eredità storica più condivisa dell’Europa centro-orientale è effettivamente quella di un territorio considerato come spazio contendibile di espansione, dunque campo di battaglia, dalle grandi potenze che vi crescevano intorno. In passato gli imperi russo, ottomano, asburgico e tedesco, per passare poi allo scontro tra le dittature nazi-fasciste e l’Unione Sovietica, e infine a quello – il meno cruento – tra il sistema economico-militare occidentale e quello dell’attuale Russia.

L’adattamento ai modelli importati dalle potenze vicine – il nazionalismo, l’economia pianificata, quella di mercato – si è sempre rivelato un trapianto difficile.

Date anche le piccole dimensioni dei singoli mercati e la conseguente condizione di dipendenza economica, questi Paesi hanno infatti finito per considerarsi in concorrenza tra loro – anche politicamente – per la benevolenza del grande protettore, piuttosto che partner con interessi comuni: i tratti di unitarietà che potevano essere percepiti dall’esterno non sono mai coincisi con la realtà dei fatti – almeno a livello politico.

Ciò si è ripetuto, in larga misura, dopo la caduta del Muro. La concordia che spingeva nel 1991 alla costituzione del gruppo di Visegrad (Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria) – scelta simbolica, poiché in quella stessa città si incontrarono nel 1335 i re di Polonia, Boemia e Ungheria per costruire un’unione commerciale alternativa a Vienna – si è rotta in breve tempo.

L’obiettivo di negoziare insieme un rapido l’ingresso nell’Unione Europea è fallito, e Bruxelles ha potuto adattare il processo a suo piacimento: l’entrata nell’UE è avvenuta 13 anni dopo, e un solo Paese (la Slovacchia) ha aderito finora all’euro. Nell’area balcanica – dopo le tremende guerre che smembravano la ex-Yugoslavia – i vari stati si sono addirittura boicottati a vicenda durante le trattative con l’UE, e molti continuano a restarne al di fuori. Tutto considerato, tale concorrenza interregionale è stata in parte ammorbidita dalla forza integratrice della Repubblica federale tedesca; già dai tempi dell’Ostpolitik di Willi Brandt, e ancor più dalla caduta del Muro fino all’atteso return to Europe, la Germania ha offerto l’aggancio più concreto al modello economico e istituzionale dell’“Ovest”.

L’adesione all’Unione, pur problematica, dovrebbe avere eliminato alcuni ostacoli alla compiuta costruzione di unità politiche funzionanti: l’obbligo al rispetto delle minoranze e all’intangibilità dei confini, e l’esistenza di un’arena per la risoluzione dei problemi consentono una stabilizzazione almeno esteriore. All’interno però, un po’ tutti i giovani sistemi centro-orientali assistono periodicamente al protagonismo autoritario di singoli personaggi. Che si chiamino Orbán, Ponta o Zeman, dimostrano come sia facile abusare di fragili regole democratiche, in continuità con una lunga tradizione che identifica le istituzioni in un “capo” (lo slogan yugoslavo Dopo Tito, Tito! ne era un emblematico esempio) e le fa considerare da buona parte delle élite locali un qualcosa di provvisorio, negoziabile, utilizzabile al meglio per scopi immediati.

La crisi di Kiev è stata, in questo senso, impietosa nel mostrare la situazione dello stato più grande non solo dell’Europa centro-orientale ma di tutto il continente, l’Ucraina, nemmeno in grado di esercitare la sovranità sul suo territorio. Anche in questo caso i Paesi dell’area si sono dimostrati ben divisi sul comportamento da tenere nei confronti della Russia, fonte di grandi investimenti per molti di loro, e impreparati alla portata dei grandi eventi in corso.

Tra tutti, solo la Polonia sembra aver raggiunto la maturità politica necessaria per considerarsi un interlocutore decisivo nell’area. Grazie alle proprie dimensioni, alla relativa buona salute economica, all’affidabilità nell’attuale sistema di potere europeo, Varsavia può sfruttare alcuni suoi vantaggi storici. Ossia gli stretti contatti mantenuti con il mondo anglosassone, ai più alti livelli economici e militari – non pochi consiglieri di origine polacca sono stati attivi alla Casa Bianca, dalla fine degli anni Settanta in poi; e, al contrario degli altri stati dell’area, i rapporti più che cordiali sia con alcuni dei suoi vicini orientali, come la Lituania e la parte occidentale dell’Ucraina, che occidentali, come la Svezia.

Non per caso, la Polonia è stata scelta dalla NATO come uno dei perni fondamentali del suo rilancio nell’Est, in funzione antirussa, in partnership con i Paesi baltici. Una scelta accolta con ben poco entusiasmo, però, dai vicini tedeschi. Quest’inverno, per la prima volta, apparecchi polacchi parteciperanno ai pattugliamenti aerei su Estonia, Lettonia e Lituania; la base della nuova forza di risposta rapida Nato (4.000 soldati) dovrebbe essere costruita in uno dei quattro Paesi, con l’accordo di Svezia e Finlandia. Una solida struttura difensiva, rafforzata da una cooperazione interregionale, sarebbe ovviamente un passo importante per ridurre ulteriormente la contendibilità geopolitica delle ultime aree esposte a tale rischio nell’Europa centro-orientale.

È abbastanza per fare di Varsavia una potenza regionale di riferimento per l’Europa centro-orientale? No, e non solo perché le debolezze strutturali della Polonia sono tutt’altro che superate.  Questa parte d’Europa, per i motivi che abbiamo considerato, è ancora più nella condizione di un oggetto che di un soggetto della storia; le capitali occidentali hanno tutto l’interesse a mantenerne un forte grado di dipendenza – e ciò è vero in termini di sicurezza nel rapporto con gli Stati Uniti e la NATO, come anche in termini economici nel rapporto soprattutto con la Germania. Ma benché abbia avuto i suoi meriti (e i suoi vantaggi) nella stabilizzazione della regione, è anche vero che la Germania è apparsa meno in grado di rappresentare la volontà politica degli stati dell’Europa centro-orientale una volta che questi si sono trovati esposti alla pressione di un altro polo esterno – e cioè la Russia, in particolare dallo scoppio della crisi ucraina in poi.

Berlino, quasi sempre punto di riferimento diplomatico e finanziario, non ha infatti in questo caso saputo sintetizzare posizioni spesso effettivamente lontane, come il diverso atteggiamento sulle sanzioni contro la Russia registrato a Budapest, a Varsavia o a Bucarest. L’idea di un centro di stabile influenza regionale traballa dunque dall’esterno ed è per ora irrealistica dall’interno: se questo nascerà nell’Europa centro-orientale, sarà più di un solo Paese a doversene assumere l’iniziativa.