international analysis and commentary

L’Egitto e gli aiuti internazionali: dove la politica incontra l’economia

167

È sfociata in una crisi diplomatica tra Egitto e Stati Uniti la campagna condotta dalle autorità egiziane contro le ONG internazionali. Una crisi che, sotto il profilo economico, rischia di aggravare l’instabilità dell’Egitto in questa delicata fase di transizione e che potrebbe avere conseguenze anche sul piano politico. Mentre i rapporti tra il Cairo e Washington si facevano più tesi nel corso del mese di febbraio, Giustizia e Libertà, il partito islamista ispirato alla Fratellanza Musulmana e vincitore delle ultime elezioni parlamentari, ha chiamato in causa anche Tel Aviv, riportando al centro del dibattito politico il trattato di pace tra Egitto e Israele firmato a Camp David nel 1979.

All’origine della crisi c’è l’iniziativa del Ministro della cooperazione internazionale egiziano, Fayza Abul Naga, che la scorsa primavera aveva avviato un’indagine sulle attività e sui fondi delle Ong internazionali che operano nel paese. Alla fine dello scorso dicembre, le autorità cairote hanno fatto irruzione nelle sedi di diverse organizzazioni accusate di ricevere fondi da paesi stranieri e di “voler dirottare la rivoluzione nell’interesse di Stati Uniti e Israele, seminare il caos e minare la democrazia egiziana”. Tra le ONG che hanno subito la confisca di documenti e apparecchiature compaiono i nomi di diverse organizzazioni statunitensi. Proprio per questo, ribadendo l’importanza giocata dalla società civile nel processo di transizione politica in corso, la Casa Bianca ha minacciato di sospendere l’invio dei 3,1 miliardi di dollari che assegna annualmente al Cairo. A complicare ulteriormente il quadro, è poi intervenuta una corte egiziana che ha iniziato un procedimento contro quarantatrè funzionari di Ong accusati di aver elargito illegalmente finanziamenti a organizzazioni locali. Tra gli imputati, compaiono diciannove statunitensi. Tra questi un nome illustre come quello di Tom Daschle, vice presidente del National Democratic Institute ed ex leader democratico della maggioranza al Senato statunitense, ma anche Sam LaHood, figlio del Segretario ai trasporti degli Stati Uniti (e direttore del programma egiziano dell’International Republican Institute – una Ong affiliata al partito repubblicano).

A metà febbraio, il Senatore democratico John Kerry e il suo collega repubblicano Rand Paul hanno presentato due proposte di legge che chiedono la sospensione dei sussidi egiziani, già inseriti nella proposta di budget per l’anno fiscale 2013 presentata dal presidente Obama al Congresso lo scorso 13 febbraio.

L’iniziativa dei due senatori ha provocato una dura reazione da parte di Mohamed Morsi, leader di Giustizia e Libertà. Morsi è giunto a dichiarare che un’eventuale sospensione dei sussidi potrebbe perfino far “traballare il trattato di Camp David”. Essam El-Erian, vice presidente del partito, ha ricordato che “gli aiuti americani erano uno degli impegni sottoscritti dalle parti al momento della firma del trattato. Se un contraente viola una clausola, gli altri hanno diritto di chiedere una revisione dell’accordo”. Nonostante le dichiarazioni dei vertici di Giustizia e Libertà, pochi credono che l’Egitto abbia realmente intenzione di riaprire il fronte diplomatico-militare con lo stato ebraico. La situazione economica del paese è particolarmente critica e la risoluzione delle questioni interne appare senza dubbio prioritaria rispetto all’ipotesi di una politica di tensione e confronto diretto con Israele. 

Il declino del settore turistico, il blocco degli investimenti e la crescente inflazione contribuiscono, infatti, ad aumentare il deficit di un paese in cui il tasso di disoccupazione giovanile potrebbe superare la soglia del 25%. Secondo il Wall Street Journal le riserve valutarie sono precipitate dai 36,2 miliardi di dollari del 2010 ai 18,1 del 2011, e potrebbero esaurirsi nel mese di marzo. Il debito estero ha superato i 35 miliardi di dollari, con un incremento del 3,6 % rispetto all’anno passato. Anche il presidente Obama ha invitato le autorità egiziane a riflettere sulla gravità della crisi economica, lo scorso 20 gennaio, durante una conversazione telefonica con il capo del Consiglio Supremo delle Forze Armate, il generale Hussein Tantawi. Il presidente americano ha colto l’occasione per ricordare il ruolo decisivo svolto dalle Ong e dai sussidi statunitensi per il buon esito della transizione egiziana.

Pur condannando pubblicamente l’ingerenza straniera nei suoi affari interni, il Cairo continua a beneficiare di cospicui contributi finanziari internazionali. La scorsa estate, dopo aver rifiutato gli aiuti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, l’Egitto è tornato sui suoi passi accettando un prestito di 3,2 miliardi di dollari da parte dell’Fmi e un contributo biennale di un miliardo di dollari dalla Banca Mondiale (oltre a 500 milioni per l’assistenza immediata). Altri 650 milioni sono stati promessi al Cairo dall’Unione Europea, anche se alcuni analisti temono che l’impegno sia a rischio a causa della crisi dell’euro.

Anche le monarchie del Golfo si sono dimostrate generose nei confronti del Cairo. Il regno saudita ha promesso prestiti a lunga scadenza pari a 4 miliardi di dollari e il Qatar ha annunciato di volerne investire altri 10. Certamente, i rapporti con questi paesi dipendono anche dall’atteggiamento che i Fratelli Musulmani adotteranno nei loro confronti. In un articolo pubblicato sul quotidiano egiziano al-Masry al-Youm, l’editorialista Sultan al-Qassemi, originario degli Emirati Arabi Uniti, ha spiegato che i nuovi protagonisti della scena politica egiziana dovrebbero cercare di costruire relazioni con l’Arabia Saudita e gli Emirati visto che queste sono le economie più forti della regione. “I Fratelli Musulmani – spiega al-Qassemi – dovranno presto chiedersi come fare per attrarre vitali investimenti da quei ricchi regimi che nutrono sospetti nei confronti della loro agenda (…) I prossimi giorni sveleranno se il pragmatismo della Fratellanza porterà l’Egitto a bussare alle porte degli stati del Golfo.”

In ultima analisi, l’Egitto si trova oggi in una situazione di forte dipendenza dal flusso di aiuti – in varie forme – proveniente dall’estero. Ciò condizionerà in qualche misura le sue scelte politiche e diplomatiche, pur non garantendo in ogni caso una rapida ripresa e un miglioramento netto delle condizioni di vita: l’ammontare degli aiuti internazionali finora promessi non sarebbe comunque sufficiente a tenere a galla l’Egitto che, secondo l’opinione dei suoi stessi economisti, avrebbe bisogno di 10 o 12 miliardi di dollari per rimettere in sesto la sua economia.