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L’Egitto dei Fratelli musulmani di fronte al dilemma palestinese

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C’è uno spaventoso specchio di similitudini tra l’escalation di violenza in corso tra Tel Aviv e Gaza e l’operazione israeliana del 2008; ma vi si riflette anche una differenza. L’Egitto di oggi non è quello di quattro anni fa, quando Hosni Mubarak si era fatto riprendere dalle telecamere mentre stringeva le mani del ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni alla vigilia dell’Operazione Piombo Fuso. Il vecchio dittatore è ora in una cella del carcere di Tora. Al suo posto c’è l’islamista Mohamed Morsi che in questi giorni sta confermando il suo attivismo internazionale, mostrandosi molto più vicino del suo predecessore ad Hamas, il movimento di resistenza palestinese nato da una costola della Fratellanza egiziana che governa nella striscia di Gaza. Anche se dalla caduta del vecchio faraone i rapporti tra questi due gruppi islamisti si sono rafforzati, la relazione è entrata in un labirinto evolutivo del quale non si vede ancora l’uscita.

Nel corso delle primavere arabe, Hamas si è trovata davanti a grandi sfide. Dopo aver sostenuto le rivolte popolari contro i dittatori del nord Africa, il movimento di resistenza palestinese ha tagliato i ponti con il regime siriano, trasferendo il suo quartier generale da Damasco a Doha e mettendo anche in discussione i legami con uno dei suoi più grandi sostenitori, l’Iran. Questo ha contribuito a migliorare le relazioni con l’asse sunnita dell’Islam politico, in primis con paesi come Turchia, Qatar ed Egitto.

Il rovesciamento del raìs egiziano ha avuto importanti ricadute all’interno di Gaza. Venendo meno lo storico alleato di al Fatah, il partito rivale di Hamas che governa in Cisgiordania, il processo di riconciliazione intra-palestinese ha registrato un timido progresso. Dopo sei anni di negoziati senza successo, il 4 maggio 2011 le due fazioni hanno firmato un accordo al Cairo. Anche se l’accordo non è entrato in vigore, l’episodio ha ribadito il ruolo di mediatore giocato dall’Egitto. Un ulteriore passo in avanti si è avuto a luglio quando Haniyeh ha incontrato il neopresidente Morsi per decidere i dettagli dell’apertura di Rafah, il valico nella penisola del Sinai al centro di costanti discussioni tra Gaza ed Egitto.

Proprio questo triangolo di terra da opportunità di allentamento della pressione su Gaza è diventato un ostacolo. Il 5 agosto, sedici guardie egiziane hanno perso la vita lungo il confine, nel corso di un attacco guidato da un gruppo di estremisti. Per colpire i rifugi dei terroristi ritenuti responsabili dell’attentato, Morsi ha deciso di mobilitare l’aviazione che è ricomparsa nei cieli del Sinai dopo quasi quarant’anni. Il valico di Rafah è stato chiuso e il governo egiziano ha annunciato la distruzione dei tunnel sotterranei che dal 2007 hanno garantito l’ingresso di beni di contrabbando nella Striscia – principalmente alimenti e armi – ufficialmente sotto embargo israeliano.

Il riavvicinamento tra Gaza ed Egitto sembrava essere durato poco. A confermarlo i recenti tentativi andati a vuoto di incrementare la cooperazione in materia energetica ed economica. L’attuale primo ministro egiziano Hisham Qandil non si è discostato dalle tradizionali posizioni di Mubarak e ha basato l’offerta di un rafforzamento delle relazioni bilaterali sugli sforzi di conciliazione con Fatah.

Nonostante queste dinamiche, l’Egitto continua ad essere un attore importante anche negli sviluppi interni ad Hamas. In vista della selezione della nuova guida del Politburo del movimento, lo scorso 17 settembre due delegazioni –separate- di Hamas si sono recate al Cairo. La prima delegazione era guidata da Haniyeh, la seconda da Khaled Meshaal, il leader di Hamas in esilio. In disaccordo su numerose questioni politiche, Haniyeh e Meshaal hanno cercato di capire come le diverse anime del movimento possono risolvere i problemi con il Cairo e rafforzare la relazione bilaterale. Alcuni risultati di questi colloqui si sono visti l’ultima settimana di settembre quando Meshaal si è ritirato dalla corsa per il Politburo. Anche se questa mossa può essere interpretata in diversi modi, non è da escludere che nei colloqui al Cairo Meshaal abbia maturato l’idea di diventare la guida suprema di una sezione palestinese della Fratellanza musulmana staccata da ogni organizzazione nazionale.

Hamas ha aperto le porte ad altre potenze regionali.  Il 24 ottobre, l’emiro del Qatar Hamad bin Khalifa al Thani è arrivato a Gaza, divenendo  il primo capo di Stato in visita ufficiale nella Striscia dal 2007. Dopo aver depositato due miliardi di dollari in Egitto, al Thani ha deciso di investire più di 400 milioni di dollari a Gaza. Il primo progetto da 250 milioni di dollari mira alla costruzione di una superstrada che correrà lungo la striscia di Gaza. In quei giorni, la foto sbiadita di Morsi che sventolava davanti al parlamento di Gaza era stata sostituita da quella dell’emiro al Thani.  

Oggi però, il leader egiziano è tornato ad essere protagonista. Ha aperto il valico di Rafah, ha invitato Qandil a visitare la Striscia e cerca di mediare una tregua. A chiederglielo è in primis il suo elettorato di riferimento, visto che il partito della Fratellanza è stato il primo ad opporsi all’offensiva israeliana chiedendo a Morsi di prendere le distanze da Tel Aviv. A condividere questa linea sono stati però anche partiti di opposizione, movimenti rivoluzionari giovanili e di sinistra che chiedono una revisione del trattato di Camp David. Pur non domandandone la fine, sperano di poter rivedere almeno alcuni aspetti relativi agli accordi economici bilaterali.

Nonostante questo attivismo, Morsi non può ignorare i limiti della sua azione diplomatica su Israele. L’atteggiamento nei confronti di Gaza è cambiato, ma il Cairo rimane firmatario del trattato di pace con Tel Aviv e il secondo alleato degli Stati Uniti nella regione.