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Leggere Obama sul New York Times

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Alla vigilia del tour asiatico che lo ha portato a visitare quattro paesi – India, Indonesia, Corea del Sud e Giappone, e non la Cina – Barack Obama ha presentato alcuni dei suoi obiettivi per la seconda metà del mandato in un articolo uscito il 5 novembre sul New York Times. Arrivando a poche ore dalla sconfitta dei democratici nelle elezioni di midterm, questo messaggio presidenziale a mezzo stampa va letto anzitutto in chiave di politica interna. Ma le ripercussioni esterne sono altrettanto significative, e si possono fare almeno tre considerazioni sulle priorità indicate dal presidente: la prima sulla direzione della politica estera americana, la seconda sull’Europa, la terza sul sistema economico globale.

Oltre a riconoscere alla macro-regione asiatica il ruolo assolutamente centrale per il futuro economico degli Stati Uniti, Obama ha presentato espressamente le quattro tappe del suo viaggio come visite presso i maggiori partner democratici dell’America. Il messaggio è semplice e chiaro: la Cina è un grande paese, ma non rientra certo in questo gruppo. In sostanza, nessun presidente può rimuovere il “fattore democrazia” dall’agenda di politica internazionale, e di fronte a sfide complesse come quella posta dalla Cina la tendenza di Washington è sempre di fare appello a questo specifico criterio per definire (o quantomeno consolidare) le proprie alleanze. Si tratta in parte di una scelta retorica, naturalmente, ma non soltanto.

Una seconda considerazione riguarda l’Europa: gli europei devono necessariamente basare tutte le loro scelte principali sulla realtà che Obama descrive in modo fattuale: l’America si concentrerà sull’Asia, e ciò avrà inevitabili conseguenze sul peso politico che sarà riconosciuto alla Cina ma anche ad altri paesi della regione. L’Europa può e deve certamente considerarsi un “polo” del sistema internazionale, ma non può illudersi che il rapporto speciale con gli Stati Uniti resti, con qualche aggiustamento, quello del passato. Non sarà più così, sul piano della sicurezza, dell’economia, dei legami culturali.

Veniamo infine al sistema economico globale, rispetto al risalto che Obama ha voluto dare alle esportazioni americane. È sempre più evidente che nessuno dei maggiori attori su scala mondiale intende rinunciare a un grande volume di esportazioni come cardine delle proprie strategie economiche. Non abbiamo soltanto una grande Cina che agisce su questa base, e una Germania che agisce come una specie di “Cina europea”; abbiamo, ci spiega Obama, un’America che cerca di muoversi lungo la stessa linea – cioè che vuole uscire dalla crisi attraverso l’export. È vero che una minore propensione americana al consumo (e all’importazione) potrebbe contribuire a sanare alcuni degli squilibri globali; ma è altrettanto vero che una spinta verso strategie di crescita export-led che venga simultaneamente da tutte le maggiori economie non sembra una ricetta per la stabilità né, a lungo andare, per la cooperazione ad ampio spettro tra le grandi potenze.

Per ora, un certo spirito cooperativo – nell’ambito del G20 ma anche dell’APEC, il foro asiatico che è stato l’occasione della visita giapponese di Obama – sta compensando e contenendo gli impulsi verso la competizione a tutto campo. Tuttavia, il presidente americano ha fatto intendere senza mezzi termini che la sua cavalcata verso l’appuntamento elettorale del 2012 avrà implicazioni dirette sulla politica estera degli Stati Uniti.