La politica estera turca sotto il governo dell’AKP attira – giustamente – molta attenzione. Negli ultimi mesi gli osservatori si sono concentrati sui rapporti della Turchia con quei paesi mediorientali che stanno attraversando un difficile processo di democratizzazione o che, come Libia ed Egitto, affrontano crisi e lotte intestine dall’esito ancora incerto. In occidente, si confrontano così le tesi di chi ritiene la Turchia un modello utile e positivo per la democratizzazione della regione, e di chi invece teme che la sua politica estera possa gettare benzina sul fuoco dell’islamizzazione, compromettendo la transizione democratica.
Per comprendere adeguatamente le mosse del governo Erdoğan è necessario guardare anche al delicato rapporto con Israele, che è sintomatico delle diverse concezioni del ruolo internazionale della Turchia. Il governo e le forze armate di Ankara avevano sempre intrattenuto relazioni non ostili con Israele; negli anni Novanta, d’intesa con gli USA, avevano raggiunto degli accordi strategici ed economici che avevano reso la Turchia l’unico alleato dello stato ebraico in una regione tendenzialmente ad esso ostile. Per la Turchia islamofoba dei kemalisti, caratterizzata da una visione dei paesi circostanti come potenziali minacce per la sicurezza nazionale, questa alleanza rappresentava anche un modo per proiettare gli interessi di Ankara oltre la regione mediorientale – a maggior ragione in una fase in cui i rapporti con l’Europa erano in fase calante. Nello stesso tempo, essa permetteva alla Turchia di rimanere un perno essenziale nelle strategie americane, dopo che il crollo dell’URSS sembrava avere svuotato di significato il fianco sud della NATO. L’alleanza era inoltre facilitata dal processo di pace avviato in Medio Oriente dal governo Rabin, che rendeva Israele meno inviso all’opinione pubblica turca e spuntava le armi polemiche degli islamisti.
Le intese tra i due paesi non sono state messe in discussione durante i primi anni di governo dell’AKP, quando anzi il governo turco si è proposto come mediatore per una possibile pace tra Israele e Siria. Questo atteggiamento era ispirato all’imperativo “zero problemi con i vicini” del ministro degli Esteri e ideologo dell’AKP Ahmet Davutoğlu. Una linea che prevedeva che Ankara ristabilisse il proprio ruolo come potenza globale perseguendo una linea di sviluppo economico e di acquisizione di influenza internazionale attraverso un ampio uso del soft power e relazioni positive con tutti i possibili partner economici, anche quelli tradizionalmente più problematici.
Le relazioni tra Turchia e Israele sono tuttavia progressivamente peggiorate nel corso degli anni successivi, in seguito a una serie di dichiarazioni da parte dei leader turchi a proposito dello stato ebraico, accusato di terrorismo di stato per le sue politiche nei territori e per atti come l’assassinio dello sceicco Ahmed Yassin. È stato in particolare a partire dal 2009, l’anno dell’avvento di Davutoğlu al ministero degli Esteri, che il cambiamento di tono è divenuto evidente.
Nell’atteggiamento turco verso Israele sembrano così essersi sovrapposte, negli ultimi 20 anni, tre diverse strategie geopolitiche. La prima, messa a punto dalla leadership kemalista negli anni Novanta, vedeva nell’alleanza con Israele un modo sia per rafforzare la partnership privilegiata con gli USA sia per ampliare la proiezione internazionale del paese, soprattutto sul piano economico.
La seconda linea di azione, implementata nei primi anni di governo dell’AKP, aveva come quadro di riferimento lo sforzo per l’integrazione della Turchia in Europa (e il contemporaneo allontanamento dagli USA a causa delle divergenze sulla guerra in Iraq): si puntava qui ad accreditare il paese come un arbitro e un terzo super partes nel Mediterraneo, facendo perno sui suoi buoni rapporti sia con Israele, sia con i paesi arabi a maggioranza musulmana.
La terza strategia è venuta alla luce in un momento di stallo nelle relazioni con l’UE e di recrudescenza delle politiche israeliane verso i palestinesi: ora non si rinnegano le ambizioni ad essere un attore sopra le parti in Medio Oriente, ma si tende a proiettare la Turchia nella regione anche attraverso uno sfruttamento tribunizio della causa palestinese. In sostanza, Ankara sembra disposta a sacrificare l’alleanza con lo stato ebraico nel caso in cui questo non sia disposto a mutare le proprie politiche in Cisgiordania e a Gaza.
Nel quadro che si è delineato nel corso del 2011, la Turchia persegue un duplice binario, esplicitato nelle decisioni più recenti: da un lato il progetto di una nuova Freedom Flotilla per sfidare il blocco israeliano, e dall’altro le affermazioni del presidente Abdullah Gül che ha esposto l’impegno turco per spingere Hamas a riconoscere Israele. Il fatto che questa dichiarazione sia venuta a pochi giorni dal discorso di Barack Obama sul Medio Oriente mostra come le strategie turche si inseriscano in un complesso gioco che va oltre la regione mediorientale. Sono possibili diverse interpretazioni: secondo alcuni, Ankara si starebbe gettando tra le braccia di Iran e Siria; secondo altri, le spregiudicate iniziative turche sarebbero invece implicitamente benedette dagli USA per realizzare una pace in Medio Oriente che includa anche l’ala moderata degli islamisti di Hamas, contrastando proprio la penetrazione iraniana nella regione. Il reale esito dipenderà, probabilmente, dai risultati dell’iniziativa diplomatica che gli USA intendono sviluppare in Medio Oriente nei prossimi mesi. L’unica certezza, al di là delle diverse interpretazioni, è che in questo scenario la Turchia intende svolgere un ruolo da protagonista.