international analysis and commentary

Le rotte dei migranti e l’Europa senza bussola

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La crisi dei profughi che sta investendo i Balcani ha portato alla luce le conseguenze delle mancate soluzioni ad alcune criticità dell’agenda internazionale – a partire naturalmente dalla Siria – e non può essere ridotta, alla locuzione “la nuova rotta dei migranti”. Anzi, questa stessa idea di novità è un falso clamoroso.

I profughi, in prevalenza siriani e afghani, ammassati al confine macedone non sono dei volenterosi che hanno scovato, appunto, una nuova rotta; è sufficiente uno sguardo alla mappa per capire come la strada in questione sia la direttrice principale, se non quella obbligata, per chi voglia raggiungere il nord Europa fuggendo dal Medioriente.

Ma allora cosa è cambiato? Perché migliaia di profughi hanno iniziato a premere con più insistenza sul confine della Macedonia e da lì sono passati in Serbia e quindi in Ungheria, innescando tragedie umanitarie che purtroppo non resteranno isolate e che hanno nelle analoghe tragedie del Mar Mediterraneo un lugubre parallelo?

È accaduto che la Turchia, e soprattutto la Grecia, hanno interrotto la loro funzione di filtro dei migranti in costante arrivo dallo scenario siriano (ma anche afghano), e questa condotta – ovviamente deliberata – ha innescato la reazione a catena che ha investito i Balcani. Viceversa dovremmo credere che 100.000 profughi nelle ultime settimane d’agosto siano partiti dalla Siria per raggiungere il confine macedone non visti e non intercettati da alcuna autorità turca o greca per oltre 2.000 chilometri.

Se la rotta turca può in parte essere aggirata via mare, il territorio greco rimane un approdo obbligato. Occorre tuttavia darsi un po’ di prospettiva storica per capire come Atene sia stata il fattore scatenante della crisi attuale. Per posizione geografica la Grecia, con l’Italia, rappresenta la porta meridionale dell’Europa e nel corso degli ultimi cinque anni è stata il paese che maggiormente ha dovuto subire flussi migratori innescati dalle crisi regionali (Siria, Iraq) e dalla pressione demografica (Afghanistan, Pakistan, Bangladesh).

Dal fiume Evros, al confine con la Turchia, prima che per volere di Atene e della UE venisse eretto un muro, le stime ufficiali indicavano in 50.000 all’anno i migranti entrati (e mai usciti) in Grecia. Come il paese abbia saputo, o potuto, gestire quest’emergenza umanitaria è purtroppo noto. Le condanne che la Corte di Strasburgo ha inflitto anche di recente ad Atene per le costanti violazioni dei diritti umani sono la conferma penale di una condizione carceraria (il 60% dei 12.000 detenuti sono stranieri) inimmaginabile per gli standard europei, come a dir poco drammatico è il degrado dei centri di detenzione per i migranti sparsi nel paese.

La crisi dell’euro ha dato il colpo di grazia a quest’emergenza, tanto che nel corso degli ultimi anni si era verificata una circostanza paradossale: Atene, insolvente e inaffidabile in termini economici verso i creditori e più volte sull’orlo del baratro finanziario, per una sorta di compensazione non scritta tutelava i partner europei trattenendo migliaia di migranti in condizioni impietose, impendendogli di proseguire il viaggio in cerca d’asilo.

Si era al rodaggio di Dublino II (accordo varato nel 2003) e i migranti, impossibilitati a tornare indietro, sono via via rimasti bloccati in Grecia dove le autorità non hanno rilasciato le carte che permettessero al loro viaggio di continuare. Atene e le principali città greche divennero così, e sono tutt’ora, una sorta di prigione a cielo aperto abitate da apolidi senza più patria.

Arriviamo così all’ultimo salvataggio finanziario, che ha sì evitato il default greco (anche se a questo punto occorrerebbe intendersi su cosa sia davvero un default…) ma ha causato l’ennesima frattura nelle forze politiche interne portando alle elezioni anticipate del 20 settembre In questo scenario di grande frustrazione nazionale, anche negli ambienti delle élite con importanti ruoli di sicurezza, è altamente probabile che sui migranti sia venuta temporaneamente meno quella implicita tutela verso il salotto buono d’Europa cui si accennava pocanzi.

Girando la testa dall’altra parte Atene ha mandato un segnale forte all’Europa che, in tema migranti, non è stata in grado di decidere in maniera chiara, durante la primavera scorsa (al solito in un clima d’emergenza emotiva dopo l’ennesima ecatombe nel Mediterraneo), come distribuire tra i diversi paesi le 40,000 unità che, complessivamente, Italia e Grecia  avevano sino a quel momento gestito in autonomia. Peraltro, sulla verosimiglianza di queste cifre (probabilmente troppo modeste) è lecito nutrire non pochi dubbi.

Sul piano regionale, inoltre, la Grecia è riuscita a mettere in difficoltà la Macedonia, con la quale i rapporti sono da sempre a dir poco precari. Il governo di Skopje, già travolto da diversi scandali e alle prese con il crescente problema etnico della minoranza albanese, si è quindi trovato impreparato rispetto al flusso proveniente dalla Grecia.

Il contenzioso tra i due vicini verte attorno al nome di Macedonia che i greci rivendicano per sé e che costituisce il principale ostacolo all’entrata nella NATO della Repubblica di Macedonia (nome ufficiale FYROM, Former Yugoslav Republic of Macedonia), dal momento che la Grecia ha sinora fatto valere il suo diritto di veto. Questo problema si sta rivelando l’ennesimo fattore di divisione, perché spinge il governo di Gruevski a rafforzare i legami con Mosca, sia sul piano identitario del panslavismo in chiave anti-albanese, sia su quello diplomatico dato appunto il veto di Atene all’ingresso nell’alleanza atlantica.

Alla luce di queste tre enormi criticità – collasso economico-finanziario, posizione geografica sensibile, rapporti diplomatici regionali – appare chiaro come la Grecia sia oggi un paese-chiave soprattutto in senso negativo. Ma, ovviamente, è soltanto un anello della catena. Proseguendo l’odissea balcanica, i profughi una volta superato a fatica il confine macedone hanno trovato la totale collaborazione delle forze serbe che li hanno scortati sino al confine con l’Ungheria, dove rimane ancora aperto l’ultimo piccolo varco nel muro voluto dal governo conservatore di Budapest per frenare le ondate di esuli – a ulteriore conferma che la rotta di questo agosto non sia affatto “nuova.”

L’idea che la crisi dei migranti possa incendiare i già precari equilibri balcanici è probabilmente un’esagerazione, dal momento che la Serbia, come la Macedonia, è alle prese con un problema inter-etnico – quello degli gli albanesi del Kosovo – le cui implicazioni riguardano sì il quadro regionale, ma appaiono storia distinta dal tema dei flussi.

Nell’Ungheria guidata da Viktor Orbán, la sorte dei migranti appare invece più incerta mentre nel cuore dell’elegante Mitteleuropa austriaca (dove il cappuccino si chiama melange), 71 profughi possono morire soffocati in un camion abbandonato in autostrada. I ministri degli Esteri rilasciano le dichiarazioni di rito ma la domanda sul cosa fare è sempre più imperativa; le risposte, purtroppo, sembrano esserlo molto meno.

Come abbiamo visto, i problemi vengono principalmente da due quadranti: quello asiatico con Siria e Afghanistan, snodo in Turchia, e impatto sui Balcani a partire dalla Grecia; quello africano con Eritrea e Nigeria, snodo in Libia, e impatto sul Mediterraneo a partire dall’Italia. Ciascuno di questi quadranti si compone di crisi recenti e di crisi croniche. Recente quella siriana, cronica quella afgana (il paese, è interessante ricordare, è l’unico non africano tra i primi 20 al mondo per indice di natalità); recente la crisi della Nigeria alle prese con corruzione e minaccia islamista di Boko Haram, cronica la situazione del Corno d’Africa.

Ora, pensare che un’Europa in difficoltà nel gestire la collocazione di 40.000 migranti (ma probabilmente molti di più) possa influire sulle cause scatenanti dei flussi è illusorio. Certo, sul piano diplomatico si potrebbe fare di più: senza il via libera della Russia – esclusa inspiegabilmente dall’ultimo vertice sull’Ucraina convocato da Merkel e Hollande a Berlino il 24 agosto scorso (inviato Poroshenko e non Putin) – è impossibile ad esempio qualsiasi azione sotto bandiera ONU contro i trafficanti in Libia. Sempre senza la Russia sarà inverosimile trovare una soluzione alla guerra in Siria, la cui ultima e fallimentare conferenza di pace risale addirittura al febbraio 2014 (Ginevra II).

Sul piano pratico, infine, la solidarietà europea è di fatto lasciata all’iniziativa nazionale: ovvio che l’efficace risposta tedesca o svedese, in termini di risorse e di organizzazione, non può essere paragonata a quella spagnola, italiana o greca che scarseggia in entrambe le voci. È certo però che senza un reale coordinamento il problema è davvero ingestibile, per la sua stessa natura fluida e transfrontaliera.

L’Europa sembra quindi nuda: l’ennesima riunione dei responsabili UE convocata per il 14 settembre ha i caratteri formali dell’urgenza, ma è fissata a due settimane di distanza – a conferma di una specie di distonia tra l’alta politica e i fatti sul terreno. E non dimentichiamo che per la “redistribuzione volontaria” dei 40.000 serve ancora un passaggio in aula all’Europarlamento, prima che divenga esecutiva de iure.

Insomma, purtroppo resta una conclusione amara: l’Europa deve gestire una crisi umanitaria probabilmente troppo complessa per l’attuale capacità della sua governance collettiva.