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Le ragioni di Roma e Londra nella UE

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Perdere Londra, per l’Unione Europea, significa perdere molto. Uno dei due membri europei del Consiglio di sicurezza, con le sue capacità militari e di politica estera; una piazza finanziaria dinamica; un modello attrattivo indiscutibile per le giovani generazioni; un attore economico vitale del mercato unico. L’UE di oggi – già investita da crisi molteplici e in crescita asfittica – non può, letteralmente, permetterselo. Trovare una soluzione è quindi cruciale, non solo per il futuro della Gran Bretagna ma per il futuro del nostro Continente. Il punto è che tale soluzione dovrà consentire di tenere Londra in Europa a condizioni che non ledano l’Unione.

Se partiamo di qui,il compromesso proposto da Donald Tusk, come presidente del Consiglio europeo, è un buon compromesso. Potrebbe infatti permettere a David Cameron di ottenere prima il via libera degli europei (un passaggio essenziale si avrà già al Consiglio europeo del 18 febbraio) e poi il via libera dei britannici, vincendo  il referendum (che si terrà prevedibilmente a  giugno).

Come in tutti i negoziati, il diavolo è però nei dettagli. È decisivo capire come potrà funzionare il cosiddetto “emergency brake”, il freno che Londra rivendica – per i paesi non membri della zona euro – su eventuali decisioni dell’eurogruppo che possano influenzare anche gli interessi finanziari ed economici di chi non fa parte della moneta unica. Donald Tusk ha scritto nero su bianco che Londra non sta ottenendo un potere di veto (punto dirimente per i francesi); ma andrà appunto verificato come funzionerà un accordo che prevede il riesame di singole decisioni.

Lo stesso vale per un secondo capitolo negoziale: l’accesso al welfare britannico di cittadini immigrati di provenienza europea. In questo caso il problema essenziale, per Cameron, è di riuscire a “soddisfare” l’opinione euro-scettica inglese (il meccanismo è una sospensione temporanea di parte dei benefici in circostanze eccezionali) senza mettere a rischio il principio della libertà di circolazione in Europa e senza perdere l’appoggio di paesi come la Polonia. Non a caso, il premier inglese è in missione a Varsavia.

Per il resto, il pacchetto di Donald Tusk contiene concessioni simboliche importanti per Londra. Il riconoscimento esplicito e formale, anzitutto, che la Gran Bretagna detiene uno “status speciale” in Europa (era nei fatti già così, visti gli “opt out” dall’euro e da Schengen), che la esenta dal condividere l’obiettivo dichiarato dell’UE: una integrazione politica progressiva.  Londra sottrae così se stessa alla dinamica della “ever closer Union”, di un’Unione politica sempre più stretta. È una posizione che stride con la lettera degli attuali Trattati (che andranno poi rivisti, accenna blandamente Tusk); ma che riflette la realtà delle cose.

E la mia conclusione – ascoltando David Osborne ieri a Roma, alla conferenza Aspen con Pier Carlo Padoan – è che l’ambizione inglese sia in realtà diversa dal passato. Per anni, Londra ha cercato di frenare l’integrazione europea nel suo insieme. Oggi, e dopo la crisi finanziaria, la Gran Bretagna riconosce invece che l’area euro deve strutturarsi meglio perché l’economia continentale funzioni, con i suoi riflessi sulla City. L’interesse di Londra, insomma, non è di impedire l’Unione bancaria o fiscale; è di definire meglio i rapporti fra i paesi “in” e i paesi “out”, difendendo la sovranità inglese e al tempo stesso promuovendo la competitività del mercato unico.

In uno scenario virtuoso, l’esito finale della partita sul Brexit – lanciata da Cameron essenzialmente per ragioni di politica interna – potrebbe essere questo: un’Unione europea fondata più coerentemente su due gambe, quella dell’euro e quella del mercato unico. Non sarebbe propriamente un’Europa a due velocità: la Gran Bretagna non aspira certo a raggiungere l’eurozona. Sarà un’Europa a più monete e più nettamente differenziata al suo interno: che funzionerà solo se tutte le parti riconosceranno l’interesse reciproco a stare insieme e quindi accetteranno – cosa che oggi non è – l’esistenza di rischi condivisi. Tra i vantaggi, una sana riduzione dello scarto fra retorica e realtà; e la possibilità di condurre su basi più accettabili (l’adesione a un “cerchio” esterno) le trattative per futuri allargamenti (Turchia e Balcani).

Esiste, inutile negarlo, anche un rischio. Il rischio è che il caso inglese diventi – viste le fratture già esistenti in Europa – un precedente per il proliferare di rivendicazioni nazionali, che finirebbero per fare a pezzi l’Unione. È per questo importante che il negoziato con Londra sia considerato parte – così come è presentato del resto nella proposta di Tusk – di una revisione possibile e necessaria del funzionamento generale dell’UE.

L’Italia – come la Germania (o come gli Stati Uniti, per andare più in là) – è pienamente consapevole dell’importanza della Gran Bretagna in Europa. E sta giocando la sua parte. Deve anche trarre, dal negoziato con Londra, le lezioni giuste. Un’Europa flessibile, a integrazione variabile, rispecchia la realtà di oggi. E avrebbe potenziali vantaggi, anche per i paesi dell’euro.

D’altra parte, l’Italia è in una posizione opposta a quella di Londra: il nostro problema non è di restare fuori ma è di restare parte del “nucleo duro” europeo, in campo economico e nelle politiche migratorie.  Scenari diversi ci lascerebbero estremamente esposti all’instabilità mediterranea. Quindi certo: l’Italia – come uno dei principali contributori netto al bilancio comunitario e come paese che ha retto per anni l’ondata migratoria dalla Libia – può e deve rivendicare ciò che le sembra giusto in termini di flessibilità. Ma non deve perdere di vista, nelle battaglie parziali, la sfida sostanziale.

Una versione di questo articolo è stata pubblicata su La Stampa il 4 febbraio 2016.