international analysis and commentary

Le molte vie regionali per contenere la Cina

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Siamo in una fase in cui gli Stati Uniti devono gestire non senza difficoltà l’improvviso aumento della tensione tra gli Stati che si affacciano sul Mar Cinese orientale in seguito alla decisione di Pechino di istituire una zona di identificazione aerea (ADIZ). Un aiuto alla strategia americana centrata sul Pivot to Asia potrebbe venire da tre Paesi-chiave per gli equilibri regionali come Giappone, Russia e India, le cui linee strategiche, pur del tutto autonome, sembrano convergere verso una precisa direzione: il contenimento della Cina.

Se la diffidenza nei confronti di Pechino è di vecchia data, nuovi sono il moltiplicarsi dei contatti tra questi tre Paesi – ultimo in ordine di tempo la visita dell’imperatore Akihito a Nuova Delhi conclusasi il 5 dicembre – e la scoperta di crescenti interessi comuni. Ognuno ha la sua percezione della assertività cinese: per il Giappone essa si sostanzia in rivendicazioni territoriali; per la Russia in una espansione di influenza che mette a rischio consolidate acquisizioni strategiche in Asia centrale; per l’India, al di là di vecchie querelle di confine, in un ostacolo alla propria ambizione di “guardare verso Est” e di presentarsi ai Paesi dell’ Asia orientale come un potenziale partner di prima grandezza. I pur diversi timori finiscono col risultare facilmente sovrapponibili e alimentano la ricerca di risposte speculari.

La Cina d’altra parte costituisce per Giappone e India la principale interfaccia commerciale. India e Russia sono inoltre membri di quel composito club dei BRICs di cui fa parte anche Pechino. I legami economici con l’Impero di mezzo dunque non mancano e creano una interdipendenza paragonabile a quella che è oggi alla base dei rapporti tra la Cina e Washington. Sul piano politico però gli Stati Uniti appaiono molto più vincolati dalle loro responsabilità globali e da quel “nuovo modello” di relazioni tra le grandi potenze che Xi Jinping non ha mancato di evocare anche durante la recente visita a Pechino del vice presidente americano Joe Biden. Rischiano nel contempo di vedere erodersi il sistema di alleanze su cui hanno costruito per decenni la loro capacità di interagire con tutti gli attori regionali. Uno sviluppo, quest’ultimo, messo in evidenza proprio dalla crisi innescata dalla creazione della ADIZ sopra il Mar Cinese orientale. Obama ha dovuto reagire con l’invio senza preavviso di due B52 nella zona contestata, e il suo ministro della Difesa Chuck Hagel ha ribadito che il trattato di difesa col Giappone copre anche zone sotto amministrazione (e non sovranità) nipponica come le Senkaku/Diaoyu. Ma poi Washington ha preferito il profilo basso, evitando di contestare fino in fondo la legittimità della mossa cinese e ponendosi quasi come mediatore tra le parti. Lecito dedurne che la Cina abbia ottenuto quello che voleva, inserire cioè un cuneo tra Washington e Tokyo, instillando il dubbio che mantenere corretti rapporti con Pechino conti per Washington di più che mantenerli con Tokyo. O quanto meno che le decisioni prese unilateralmente dal governo giapponese (come la nazionalizzazione delle Senkaku/Diaoyu che è all’origine, nella interpretazione dei cinesi, dell’attuale fase di tensione) non devono influenzare i rapporti Cina-Stati Uniti.

Questa distinzione di interessi, apparentemente tutta a vantaggio della Cina che auspica di ricavarne maggiore moderazione da parte giapponese, potrebbe avere un suo rovescio e – paradossalmente – fornire un insperato appoggio alla strategia americana verso l’Asia: cambierebbe così lo spirito, se non la forma, dei rapporti tra gli Stati Uniti e il suo principale partner regionale. Il Giappone, in un rapporto meno osmotico con il suo grande protettore, rischia infatti di diventare davvero una spina nel fianco per la Cina. Il rafforzamento di un governo come quello guidato da Abe Shinzo, che fa del nazionalismo una bandiera, la prospettiva di una revisione della costituzione pacifista, i cambiamenti sostanziali nelle linee guida della difesa, sotto tutti elementi che controbilanciano la prudenza dell’amministrazione Obama sul tema del contenimento. E a poco serve ai leader cinesi ammonire gli americani che, consentendo a Tokyo di muoversi in questa direzione, si distrugge l’ordine creato alla fine della seconda guerra mondiale – l’ordine sul quale gli americani impostano e giustificano la loro presenza nel grande quadrante strategico.

Ancora più preoccupante per Pechino, nell’immediato, può essere l’intensificarsi della cooperazione militare tra Giappone e Filippine, il cui contenzioso territoriale con la Cina è alla base di un lavorio diplomatico (e non solo) al quale le ambizioni egemoniche cinesi sono strettamente collegate. Tale cooperazione influenza infatti gli assetti in quell’area ASEAN che resta il principale oggetto della competizione tra le potenze regionali. Ultimo atto di questa gara è il successo registrato dalla diplomazia nipponica in Cambogia, durante la visita di Abe a Phnom Penh il mese scorso: la Cambogia, fino a ieri cavallo di Troia cinese nell’ASEAN, si sarebbe infatti convertita, per risolvere i contenziosi marittimi in atto, al codice di condotta che Pechino da sempre avversa. Carte assai simili sono quelle giocate dall’India, che sta trattando la vendita di due fregate alle Filippine e più in generale sembra intenzionata ad andare, nei rapporti con il blocco ASEAN, ben al di là di qualche esercitazione congiunta. Particolarmente significativi i tentativi di stringere i rapporti con la Birmania, fino a qualche anno fa dipendente dalla Cina.

I competitors della Cina – ovvero appunto il Giappone, la Russia e l’India – non possono da soli sperare di vincere la partita. Ma, sommate insieme, le loro forze sono sufficienti a “contenere” l’avanzata cinese, senza che venga chiamato in causa il Pivot to Asia di Obama. Un banco di prova importante sarà l’Afghanistan, che dopo la smobilitazione americana potrebbe diventare una terra di conquista per chi abbia ambizioni e potenzialità espansionistiche. All’asse Pakistan-Cina potrebbe qui contrapporsi quello India-Russia, cementato oltre che da interessi economici dalla comune avversione verso ogni forma di estremismo islamico, visto come generatore di movimenti terroristici. D’altra parte tra India e Russia il dialogo si sta intensificando, e in particolare l’industria bellica russa sta avendo un ruolo decisivo nella modernizzazione delle forze armate indiane: i nuovi Sukhoi sono ritenuti a Nuova Delhi essenziali per controbilanciare la Cina sulla contestata linea di confine. Ed è la Russia ad avere consegnato alla Marina indiana, il 16 novembre, la sua seconda portaerei, la Vikramaditya, equipaggiata con Mig ed elicotteri Kamov.

La Russia inoltre sta facendo del Vietnam, peraltro molto corteggiato anche da Giappone e Stati Uniti, un partner privilegiato (sia direttamente sia attraverso l’azione di due paesi molto allineati a Mosca, come Bielorussia e Kazakhstan). La visita a Hanoi del presidente Vladimir Putin, in novembre, ha portato una valanga di nuovi accordi che blindano il Paese asiatico, in prima fila insieme alle Filippine nel contrasto della assertività cinese nella versione Mar Cinese meridionale.

Con India e Vietnam i rapporti della Russia sono storicamente intensi e ciò facilita l’attuale trend diplomatico. Diverso è il caso del Giappone, col quale Mosca da quasi settanta anni cerca invano di stipulare un trattato di pace. Risulta pertanto una importante novità il cambio di atmosfera, decisamente verso il bello, registratosi negli ultimi mesi e culminato il 2 novembre con il primo meeting 2+2 a Tokyo tra i ministri degli Esteri e della Difesa dei due Paesi. Importante anche perché le preoccupazioni per il ruolo cinese diventano essenziali per dare davvero corpo alla collaborazione economica russo-nipponica, e fa dimenticare anche il non piccolo neo rappresentato per il Cremlino dal sistema di difesa missilistico che gli Stati Uniti vogliono creare in Asia con l’aiuto del Giappone. In questo quadro rientra anche il grande progetto di Mosca di costruire linee di comunicazione (strade e oleodotti) che colleghino l’estremo oriente russo direttamente alla Corea, aggirando la Cina; così facendo, i nuovi schemi geopolitici finiranno per intersecare la crisi coreana, con un ulteriore impatto sui rapporti con Pechino che andrà valutato attentamente nel prossimo futuro.