Come già avvenuto nel 2008 con il processo Ergenekon, una nuova ondata di indagini della magistratura ha scosso il mondo politico turco. Ad essere sotto accusa, tuttavia, non sono oggi i militari e l’establishment laico, ma lo stesso Partito della Giustizia e dello Sviluppo del primo ministro Erdoğan. Le investigazioni hanno coinvolto direttamente diversi ministri, costringendo alle dimissioni il responsabile dell’Economia Çağlayan, quello degli Interni Güler e quello dell’Ambiente e dello Sviluppo urbano Bayraktar. Nelle inchieste sono inoltre implicate altre decine di persone, tra cui il potente uomo d’affari Ali Ağaoğlu e l’amministratore delegato della banca Halk, controllata dallo Stato (nella cui abitazione sono state trovate ingenti somme di denaro in contanti).
Oggetto di indagine sarebbe tra l’altro una serie di attività immobiliari (il che riporta alla mente le vicende del 2013 a Gezi Parki, innescate proprio dai faraonici progetti immobiliari promossi dal governo a Istanbul). Ma vi sarebbero anche attività di contrabbando con l’Iran. Le inchieste potrebbero inoltre riservare ulteriori sorprese: tra le voci più ricorrenti, vi è anche quella di un coinvolgimento diretto dei figli dello stesso primo ministro.
Erdoğan ha reagito proponendo un disegno di legge per un riassetto del potere giudiziario, e trasferendo il procuratore che le aveva avviate, Zekeriya Öz, oltre a diversi esponenti della polizia. Dal punto di vista politico, ha operato un rapido rimpasto di governo, con la sostituzione di numerosi ministri oltre a quelli implicati nelle indagini, coinvolgendo in tutto dieci dicasteri. Oltre che un’operazione per ripulire l’immagine dell’esecutivo e del partito, il rimpasto è stato anche una resa dei conti all’interno dello stesso AK Parti: ciò ha portato a ruoli di rilievo altri fedelissimi di Erdoğan, a partire dal nuovo ministro dell’Interno Efkan Ala.
Queste sostituzioni sono anche una conseguenza delle divisioni nel partito di governo che derivano dalla spaccatura tra il primo ministro e la fazione legata al predicatore Fethullah Gülen, dal 1999 residente negli USA. Questi, dopo avere sostenuto fedelmente Erdoğan fino almeno al 2010 (giocando un ruolo cruciale sia nella sua affermazione nel 2002, sia nel processo Ergenekon che nel 2008 aveva messo definitivamente fuori gioco i militari) si è ora posto su posizioni decisamente critiche. Le possibili spiegazioni per questo mutamento di posizione sono legate in primo luogo al disaccordo di Gülen sul processo di pace con i curdi, che Erdoğan porterebbe avanti senza sufficienti garanzie, e alle divergenze sul duro comportamento verso Israele del primo ministro, in particolare nelle vicende della Freedom Flotilla del 2010. Ma, al di là delle specifiche divergenze, lo scontro era forse inevitabile, in un partito che ha affermato in modo incontestabile la sua supremazia nel panorama politico turco, ma che ha visto negli ultimi anni una gestione sempre più accentrata e personalistica da parte di Erdoğan.
La posta in palio è ora rappresentata dalle elezioni amministrative di marzo ma, soprattutto, da quelle presidenziali di agosto, che per la prima volta si terranno a suffragio universale (in passato il presidente era eletto dal parlamento). Per questa ragione, e per la legittimazione politica che ne deriverebbe, Erdoğan vorrebbe il posto per sé, sostituendo il collega di partito Abdullah Gül, attualmente in carica. Sembra però che gli uomini di Fethullah Gülen intendano contrapporre alla candidatura di Erdoğan proprio quella dell’attuale presidente, che viene ritenuto oggi il punto di riferimento politico del movimento insieme al collega di partito Bülent Arınç. La vera questione, tuttavia, è quali conseguenze avrà questa contrapposizione per i futuri equilibri del partito e per la sua stessa unità. Il timore di molti, nell’elettorato di Erdoğan e nella base del movimento, è che questa faida finisca per affossare l’AKP, frammentando il voto filo-islamico e favorendo un ritorno al potere delle forze laiche kemaliste.
All’equazione vanno inoltre aggiunti i fattori internazionali, esplicitamente chiamati in causa da Erdoğan con la sua tesi di una cospirazione internazionale, sia dopo le proteste di Gezi Parki, sia come causa delle attuali inchieste giudiziarie: da questo anche le accuse a Gülen di essere connivente con i servizi segreti americani e israeliani, che sono venute dalla fazione del primo ministro. C’è poi la questione del contrabbando con l’Iran, che già prima dell’avvio delle inchieste era stata sollevata da esponenti dell’amministrazione USA come un problema da risolvere: di qui l’idea, diffusa in Turchia, che Washington abbia deciso di pilotare un cambiamento di leadership, relegando Erdoğan ad un ruolo di secondo piano perché non più percepito come affidabile. A questo vanno aggiunte le critiche dell’Unione Europea, che ha recentemente ridato un debole impulso ai negoziati per l’adesione turca con l’apertura di un nuovo capitolo, ma che ha da tempo rapporti tesi con il governo di Ankara (non a caso, l’incontro ufficiale di questo mese fra Erdoğan e i vertici europei è il primo dopo cinque anni).
Il primo ministro resta tuttavia una figura estremamente popolare in Turchia, soprattutto presso l’“uomo della strada”, e non è detto che l’appannamento della sua immagine interna e internazionale si traduca necessariamente in una sconfitta alle presidenziali. Contro Erdoğan, d’altra parte, gioca il fatto che l’instabilità politica sta danneggiando anche l’economia del paese, che mostra segni di crepe (per esempio con un notevole deprezzamento della lira turca contro il dollaro negli ultimi mesi). Un ruolo decisivo sarà probabilmente giocato dalle elezioni amministrative di marzo: un marcato calo dell’Ak Parti potrebbe infatti spingere gli oppositori interni di Erdoğan a venire allo scoperto con un’esplicita sfida politica.