Ci siamo: domani verrà resa pubblica la Strategia sull’immigrazione messa a punto dalla Commissione Juncker. Bruxelles un passo avanti lo fa, finalmente, mettendo nero su bianco quel principio di solidarietà più volte invocato dall’Italia. Sul piano tecnico si tratta di una Comunicazione. Dopo anni di marginalità rispetto al Consiglio (l’organo dove siedono gli Stati nazionali), la Commissione Juncker recupera così, proprio sul tema scottante dell’immigrazione, l’iniziativa legislativa (il “potere di iniziativa”, direbbero anzi i cultori di istituzioni europee). Per essere più chiari e abbandonando espressioni gergali: è un buon risultato, per un’Europa priva fino ad oggi di una politica migratoria comune. Ma che andrà letto per quello che è. Non è ancora chiaro (il voto in Consiglio sarà a maggioranza) se il sistema di “ricollocazione” dei rifugiati sarà volontario; e varrà, in ogni caso, solo per le emergenze. Scelte più radicali – come progetti di “quote obbligatorie” per tutti i Paesi europei – sono già state respinte al mittente dal nuovo David Cameron e dal vecchio Viktor Orban (“a crazy idea”, per entrambi).
Intanto a New York si discute l’altro lato – o meglio l’altro fronte – del problema migrazione: il mandato per l’uso della forza contro i trafficanti di essere umani. Federica Mogherini spinge in questo senso a nome dell’UE. In modo paradossale, sembrerebbe quasi più semplice fare approvare una Risoluzione in Consiglio di Sicurezza – dove Londra gioca la partita dell’Italia e dell’Europa – che non nel Consiglio Europeo, dove Londra gioca invece la sua partita.
Vediamo meglio i due lati del problema. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite deve decidere se e in che limiti autorizzare azioni internazionali volte a stroncare il traffico illegale di migranti che parte della Libia. È il fronte esterno del problema europeo. Qui, le riserve da superare vengono anzitutto da Mosca (favorevole al controllo in mare ma contraria ad azioni sulle coste libiche, anche per il precedente del 2011). L’Europa cerca invece – sulla base di una Risoluzione ispirata dall’Italia e presentata da Londra – di legittimare azioni eventuali sotto Capitolo 7 (ricorso alla forza, appunto). L’Ambasciatore libico a New York – che rappresenta se stesso e una delle parti in conflitto, il governo di Tobruk – ha intanto sottolineato che la Libia non ha chiesto interventi esterni. Per sottolineare meglio questo punto, le forze libiche che fanno riferimento al Generale Haftar (protetto dell’Egitto) hanno bombardato ieri un mercantile turco davanti alle coste di Tobruk. In altri termini: sul fronte esterno l’Europa appare unita, ma è un’unità che – per servire – dovrebbe valere sul terreno più che a New York. E conterà la posizione di una parte degli attori regionali, che sulla Libia e attorno alla Libia si stanno scontrando: Turchia ed Egitto anzitutto, come si è appena visto.
Sul fronte interno europeo, la situazione resta politicamente delicata. Chi si illudeva che David Cameron, una volta vinte le elezioni, potesse moderare la propria opposizione a nuovi impegni vincolanti in materia di immigrazione, ha capito poco del problema inglese. Visti i risultati elettorali, Cameron deve all’opposto riuscire a negoziare duramente con Bruxelles; negoziare per restare alle sue condizioni nell’UE, vincendo il referendum sull’Europa previsto per il 2017 (o prima). Il Premier inglese sa perfettamente che restare nel mercato unico europeo conviene alla City, non solo all’economia europea. Ed è consapevole che – visto il trionfo del Partito/Stato nella Scozia filo-europea – un’uscita di Londra dall’UE trascinerebbe con sé, prevedibilmente, anche la fine della Gran Bretagna. Per tenere insieme la nazione, Cameron ha insomma bisogno sia di vincere la partita sulla devolution (ossia quella con la nuova leader scozzese, Nicola Sturgeon) sia di ottenere risultati con Bruxelles sulla posizione inglese in Europa. Questo spiega perché la Londra dei Tories sia disposta a fare la sua parte (senza esagerare: un parziale ripiegamento investe anche la politica internazionale della Gran Bretagna) sul fronte esterno del problema migrazione; ma non su quello interno – dove Cameron tenderà a rafforzare le clausole di “auto-esclusione” già esistenti e a porre qualche limite in più alla libertà di circolazione delle persone.
Resta il dato di fatto: un’Europa senza Gran Bretagna (lo scenario Brexit) sarebbe molto più debole in settori cruciali dell’economia o delle capacità di difesa. Se Cameron ha bisogno di Bruxelles, anche Bruxelles ha bisogno di Londra. Esserne consci significa anticipare una conclusione: con la strategia europea sull’immigrazione nascerà forse qualcosa di simile a una parziale solidarietà. Ma il futuro dell’Unione Europea sarà da domani, ancora più di quanto non sia già oggi, a geometria variabile: solo con un tasso crescente di differenziazione interna, solo con cooperazioni rafforzate fra alcuni Paesi ma non con altri, il vecchio continente avrà una vera speranza di vita.
Quest’articolo è stato pubblicato sul quotidiano italiano La Stampa il 12 maggio 2015.