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Le “due Europe” dell’economia, oltre gli stereotipi e i confini statuali

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Lo ripete spesso l’ex Presidente della Commissione Jacques Delors: se un alieno sbarcasse sulla terra sarebbe colpito dagli ottimi risultati raggiunti dall’Europa in confronto al resto del mondo. Stenterebbe invece a credere che parte significativa degli abitanti di quello stesso continente sia insoddisfatta del proprio presente e sfiduciata sul futuro.

Quale punto di vista è quello corretto? Secondo le stime degli esperti, l’Europa somiglia ancora a quella che era 20 anni fa, e tra 20 anni non sarà poi tanto diversa: solo poco più popolata e perfino più ricca. Tuttavia, sono considerazioni valide solo per il continente nel suo complesso. In effetti, non solo esistono disparità interne anche grandi ed evidenti, ma queste diventano sempre più estese e profonde: in base ai criteri più rilevanti, gli estremi a partire da cui si calcola la “media europea” si allontanano sempre di più.

Otto anni di crisi economica hanno infatti compromesso la convergenza che l’Europa sperimentava fino alla metà degli anni 2000. Stante una certa debolezza della Germania, si assisteva ad esempio alla rapida crescita di zone fino a poco prima depresse, come l’Irlanda o la Spagna, e allo spettacolare aumento dei livelli di consumo dei greci o degli ungheresi. Gli obiettivi di coesione, tra i principi fondativi dell’UE, apparivano a portata di mano, raggiungibili senza troppo sforzo, grazie a un paio di decenni di distribuzione di fondi europei e apertura dei mercati.

La congiuntura negativa ha spazzato via tale illusione – basata, come si è visto, su presupposti finanziari fragilissimi. La rappresentazione di un’Unione davvero “unitaria” è oggi impropria; perciò, si è cercata una formula che spiegasse perché una lunga stagnazione economico-sociale incombe su certe aree del continente, mentre altre sono già in grado di guardare con sicurezza agli anni che verranno. Sappiamo bene che alcuni paesi hanno reagito meglio di altri alla crisi: ciò ha portato a immaginare una frattura tra una parte meridionale, inefficiente, “cattiva” del continente, e una centro-settentrionale, efficiente e “buona” – e alla gara per incasellarsi nell’uno o nell’altro gruppo. Le dinamiche politiche continentali hanno poi spesso favorito il ritratto di una UE di tecnocrati e privilegiati di stanza a Bruxelles, o in Germania, in opposizione a tutto il resto dei suoi membri o dei suoi abitanti.

Naturalmente, costruire la cornice interpretativa di un fenomeno significa anche stabilire le coordinate attraverso cui questo fenomeno sarà in seguito osservato e affrontato. L’immagine di un’Europa da catalogare per paesi comporta che le questioni che la interessano abbiano dimensioni (e in certa misura soluzioni) nazionali. Questa è la classificazione più intuitiva e diffusa, legata com’è non solo alla percezione abituale – gli europei si considerano ancora prima di tutto cittadini di uno Stato, e sono quasi sempre dei mezzi di comunicazione nazionali a formare l’opinione delle persone – ma anche alla storia recente: una storia di conflitti e accordi tra nazioni. È facile però notare i difetti di questa focalizzazione: sia perché in Europa somiglianze e differenze trascendono i confini – ad esempio, i problemi dell’Andalusia sono ben più simili a quelli della Sicilia che a quelli della Catalogna. Sia perché molti Stati hanno al loro stesso interno divergenze più che accentuate, come dimostra il fatto che la regione più ricca (Londra) ma anche le nove più povere di tutta l’Europa centro-settentrionale si trovino nello stesso paese, il Regno Unito.

Altri schemi mentali, come la frattura culturale tra i latini, i germanici e gli slavi o anche tra i cattolici, i protestanti e gli ortodossi hanno radici in un passato più remoto. Ma vi si è spesso ricorso in maniera grossolana per spiegare l’insuccesso della cattolica Spagna – dimenticando i buoni risultati dell’altrettanto cattolica Polonia, senza parlare della Baviera o dell’Austria – o magari illustrare i fasti del rigore teutonico, trascurando la situazione molto meno esaltante di un paese altrettanto “rigoroso” e ben organizzato come l’Olanda.

In realtà, le tendenze geo-economiche degli ultimi 20 anni dimostrano una sempre minore correlazione con le barriere politiche interne all’Unione Europea, e spesso un crescente peso delle entità locali (in alcuni casi addirittura sub-regionali, come per alcuni agglomerati urbani, e in altri casi macro-regionali). Altri fattori ne sono all’origine: in positivo, il buon posizionamento geografico e lo sfruttamento delle vie di comunicazione transnazionali, la compattezza del tessuto economico e sociale, la capacità di innovare, l’attrazione dei cervelli e il livello di istruzione, un’efficiente rete di servizi.

È intorno a questi cardini che lo sdoppiamento dell’Europa assume senso compiuto. Già da tempo i centri di studio del Network Europeo per la Pianificazione Spaziale (ESPON) si sono incaricati di dare un contorno a queste frastagliate frontiere interne. Il risultato, elaborato tra il 2012 e il 2014 come proiezione della capacità dell’UE di rispondere alle sfide dell’economia globale, è un limes che include una fascia che a partire dall’Inghilterra meridionale e attraverso la valle del Reno e la Germania centrale arriva alle Alpi e alla valle padana. Le sue propaggini comprendono Bruxelles e le zone di Parigi e Lione; Amburgo e la Danimarca; la Baviera e l’Austria settentrionale.

Tutte le altre regioni europee ne sono al di fuori – se si eccettuano alcune capitali (come Madrid, Berlino o Stoccolma), considerate capaci di generare o attirare da sole le risorse necessarie per uno sviluppo vibrante. E le zone al di fuori di quel limes dovranno vedersela con un futuro di peggioramento dei salari e delle prestazioni sociali; con un recupero occupazionale sì, ma limitato soprattutto ai lavori di bassa qualità. Non è un caso che un travaso di popolazione giovane e istruita dall’una all’altra area sia in corso negli ultimi anni in proporzioni mai verificatesi in precedenza: è la prova della presenza di queste due Europe nell’esperienza personale di molti dei suoi abitanti, benché ancora assente dalle narrazioni ufficiali.

È lecito dubitare che un tentativo di ricucire la lacerazione tra le due Europe andrebbe a buon fine senza un deciso intervento di indirizzo economico e di redistribuzione – questa volta più efficiente e duratura. Tra le maggiori potenzialità economiche del futuro c’è quella di poter sfruttare le capacità di spesa delle nuove classi medie mondiali; in particolare, offrirsi in maniera ancora più decisa di quanto non sia ora come una destinazione turistica e come un centro di produzione di servizi e di merci di alta qualità. Due dei pochi settori economici, questi, che ancora implicano la creazione di molti posti di lavoro e il traino di altri settori, come le infrastrutture.

Chi beneficerà davvero della futura ricchezza? In mancanza di correzioni significative, lasciando libere le forze del mercato di agire, è facile prevedere che la tendenza attuale non si invertirà: l’economia europea ruoterà ancora di più attorno a un piccolo territorio centrale puntellato da grandi città. Un intervento degli Stati potrebbe rettificare tale deriva; ma l’accumulo di debito e l’insufficiente focalizzazione dei problemi da una prospettiva nazionale permetterebbe di raggiungere al più dei risultati limitati. Alcune delle regioni oggi escluse dal limes potrebbero tornare a convergere con il nocciolo dell’Europa forte, ma si tratterebbe soprattutto di quelle già meglio attrezzate per farlo.

Per un’inversione profonda della tendenza servirebbero volontà e strumenti politici rinnovati. Intanto la consapevolezza della scala continentale dell’investimento necessario; poi la mobilitazione di fondi in misura molto maggiore dell’attuale – in vista di risultati non immediatamente raggiungibili, come l’aumento della natalità, una più intelligente gestione dei flussi migratori, una distribuzione più equilibrata delle risorse umane e materiali, la riorganizzazione delle protezioni sociali. E infine, una politica del debito pubblico completamente differente, che permetta una dilazione decennale degli obblighi di bilancio in vigore in Europa. Volontà e strumenti politici tali non sono ancora presenti nello spazio decisionale europeo.