Con oltre otto milioni di follower su Twitter, il nuovo Primo Ministro indiano Narendra Modi è diventato di recente il terzo leader al mondo più seguito su questo social network, dopo il Presidente americano Barack Obama e Papa Francesco. Un’indicazione questa delle dimensioni del Paese di cui Modi è oggi alla guida; ma anche dell’entusiasmo suscitato dalla sua elezione il maggio scorso, in particolare tra una nuova generazione di giovani indiani che contano su di lui per portare finalmente a compimento la liberalizzazione economica e la modernizzazione istituzionale. Processi lanciati all’inizio degli anni Novanta ma che di recente erano entrati in uno stallo quasi completo.
Dopo circa sei mesi dall’insediamento del nuovo governo Modi, le attese rimangono alte, anche se è già chiaro che il processo di riforma promesso dal Primo Ministro in campagna elettorale procederà in maniera più lenta e più macchinosa del previsto. “L’approccio negli ultimi sei mesi è stato incrementale, una scelta sorprendente considerato l’enorme capitale politico di cui gode il governo oggi”, dice Chetan Ghate, che dirige l’Unità di Economia e Pianificazione presso l’Indian Statistical Institute di Delhi. “Va detto però che il ritmo delle riforme è andato aumentando nell’ultimo mese circa”.
Tra i punti del programma elettorale di Modi già inclusi nel budget presentato dal Ministro delle Finanze Arun Jaitley il 10 luglio, vale la pena segnalare in particolare l’apertura di alcuni settori critici dell’economia, come la difesa e le assicurazioni, a maggiori investimenti stranieri. I regolatori indiani hanno anche dato il proprio via libera alla creazione di due nuove categorie di veicoli finanziari (o trust) per facilitare gli investimenti nel settore immobiliare e delle infrastrutture in modo da garantire finanziamenti agevolati alle aziende che operano in questi campi. Il governo ha inoltre annunciato un’iniziativa per offrire anche alle famiglie indiane più povere accesso a moderni servizi bancari. Per tamponare il buco di bilancio, e approfittando del recente ribasso del prezzo del petrolio, Modi ha infine mosso i primi passi verso una riforma del costoso sistema di sussidi energetici, liberalizzando il mercato del diesel per la prima volta in dieci anni e lasciando che anche il gas naturale si apprezzasse di circa un terzo. Quest’ultimo è un atto in qualche modo coraggioso, giacché rischia di provocare l’ostilità di gran parte dell’elettorato nazionale. Non a caso, l’ex Primo Ministro Manmohan Singh aveva già concepito un piano simile ma, alla fine del proprio mandato, non aveva trovato la forza politica per metterlo in pratica. Più di recente, Delhi ha cominciato a valutare una serie di modifiche alle norme che regolano il mercato del lavoro in India, modifiche che sono fortemente contrastate dai sindacati. Per testare alcune delle proposte in esame, Modi sta seguendo da vicino gli ultimi sviluppi nello stato del Rajasthan, dove il governo a maggioranza BJP sta già sperimentando nuove norme più flessibili.
“Modi ha già fatto qualche importante passo avanti sul fronte delle riforme economiche”, commenta Rajiv Biswas, Chief Economist per l’Asia presso la società di ricerca e consulenza IHS. “D’altra parte, fin qui si è visto un progresso solo parziale quanto al programma di privatizzazione [valutato in circa 9,5 miliardi di dollari], considerato necessario a migliorare la competitività industriale del Paese e a ridurne il deficit fiscale”. In ritardo anche l’introduzione di un’imposta nazionale sulle vendite (la goods and services tax), che andrebbe a sostituire una serie di tasse disparate e talvolta contraddittorie gestite a livello locale e statale, semplificando la vita delle imprese e facendo aumentare al contempo le entrate del governo centrale.
Complessivamente, il programma di Modi – al grido di “Make in India” e modellato sul lavoro da lui fatto nello stato del Gujarat, di cui è stato a lungo governatore – è tutto volto a rendere il Paese più competitivo a livello internazionale e più attraente per la grande industria manifatturiera mondiale. “Dico al mondo: venite, fabbricate in India”, ha dichiarato il Primo Ministro nel discorso fatto il 15 agosto in occasione della festa dell’indipendenza indiana. “Vendete dove volete, ma producete qui”. Un obiettivo ambizioso se si pensa che l’India si trova oggi al 142mo posto (su 189 nazioni) della famosa graduatoria della Banca Mondiale sulla facilità di fare impresa nel mondo (Doing Business).
Se il governo Modi può fare molto per creare le condizioni necessarie a una nuova era di sviluppo economico in India, è fondamentale anche il ruolo giocato dalla Banca Centrale (la Reserve Bank of India) e dal suo governatore Raghuram Rajan, che si è insediato nell’autunno del 2013 ed è visto molto positivamente dalla maggioranza dei commentatori. “L’inflazione elevata e la conseguente politica monetaria restrittiva sono state tra le cause principali del rallentamento dell’economia indiana tra il 2011 e il 2014”, dice Biswas. “Ora che la pressione inflazionaria si è ridotta, la Banca centrale ha l’opportunità di perseguire una politica monetaria espansiva. E giacché l’economia indiana è influenzata soprattutto dalle condizioni interne, un eventuale taglio dei tassi di interesse, ad esempio di 100 o 150 punti, a metà del 2015 potrebbe avere un effetto importante nello stimolare la ripresa”. Ad oggi, le previsioni di IHS per l’India sono decisamente ottimistiche, con la crescita che dovrebbe passare dal 5,5% nel 2014 al 6,6% nel 2015 e, successivamente, al 6,8% nel 2016 e a oltre il 7% dal 2017 in poi.
Per il Professor Ghate, la cosa fondamentale è che il Paese continui nel proprio percorso di riforme strutturali, in modo da creare un ecosistema capace di incoraggiare gli investimenti privati, tenere sotto controllo il bilancio nazionale, ancorare le aspettative dell’inflazione in maniera credibile e quindi lanciare una ripresa di lungo periodo. “Lo sviluppo dell’India è stato compromesso perché la crescita della produttività non ha tenuto il passo con quella dell’economia”, dice Ghate. “La sfida maggiore oggi è sostenere una crescita economica non inflazionaria”.
L’altra grande questione irrisolta è, come per altro anche nel resto del mondo, quella dell’aumento della disuguaglianza. “L’India sta diventando sempre più ineguale”, spiega Ghate. “Si tratta quindi di capire se questo porterà a maggiori pressioni politiche a favore di più redistribuzione della ricchezza, il che potrebbe avere un impatto negativo sul tasso di crescita”. Ad esempio, dopo aver messo mano ai sussidi energetici, Modi dovrà a un certo punto valutare anche una riforma di quelli alimentari. Questi sono gestiti con un sistema considerato ormai molto inefficiente, fatto di enormi sprechi e corruzione, e quindi anche estremamente costoso (pare che solo nel 2014 il governo indiano spenderà 19 mila miliardi di dollari per dare da mangiare ai propri poveri). Ma naturalmente si tratta di uno dei programmi federali più amati dall’elettorato, in particolare dagli agricoltori. “In questo senso Modi cammina sul filo del rasoio con la propria agenda riformatrice”, conclude Biswas. “Deve procedere in maniera molto cauta se vuole evitare di inimicarsi gran parte dell’elettorato che ha votato per lui”.