Il crollo dell’Unione Sovietica ha causato profonde trasformazioni ideologiche, politiche ed economiche a livello mondiale, con il conseguente aumento delle pressioni esercitate dall’Occidente per favorire i processi di democratizzazione politica e di liberalizzazione economica. Inoltre, il fenomeno della globalizzazione del ventunesimo secolo ha sollevato la questione di chi, o cosa, debba guidare e delimitare l’economia di individui, nazioni e culture. La globalizzazione, che comporta l’aumento dei movimenti di beni, servizi, tecnologie, confini, idee e persone, ha conseguenze sociali ed economiche reali: tra queste, un crescente senso di sradicamento, una sempre maggiore diffusione della povertà in alcune aree, l’incapacità di godere degli effetti benefici dello sviluppo capitalistico, la crescita della disoccupazione, le migrazioni forzate e la repressione.
Le spinte contrastanti
Sin dal principio i movimenti islamisti, in quanto espressione di forze nuove nel Medio Oriente e nel mondo musulmano, hanno attratto le giovani generazioni impoverite delle città, la classe nata dal boom demografico della fine del XX secolo nel Terzo Mondo e dal conseguente esodo di massa dalle campagne. Si tratta di esponenti della borghesia tradizionale, timorata di Dio, eredi di famiglie di commercianti dei bazaar e dei souk, che sono stati esclusi prima dal processo di decolonizzazione e poi da quello di globalizzazione.
Attualmente, la maggior parte dei musulmani oscilla tra due processi in atto, entrambi molto potenti: la globalizzazione e l’islamizzazione (in quanto espressione di autenticità islamica. Il governo saudita, anche grazie alla presenza di un nucleo conservatore di “Ulama” (il clero religioso) e ad una popolazione in maggioranza conservatrice, cerca di cogliere i frutti della globalizzazione sul piano economico e tecnico, evitandone i risvolti politici e culturali. Questo perché ritiene che qualsiasi cambiamento rapido sia sinonimo di instabilità. Il regime è relativamente statico da molto tempo, ma ha capito che deve preparare la società saudita alle conseguenze della globalizzazione. Verso la fine degli anni ‘90, è emerso con chiarezza che non sarebbe stato possibile evitare profondi mutamenti. Sono quindi state introdotte alcune misure, soprattutto nella sfera economica. L’Arabia Saudita si è candidata all’ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (avvenuto nel 2005), e nel 2009 Re Abdullah Bin Abdul-Aziz ha istituito un’università privata, finanziata con ingenti risorse e che punta all’eccellenza negli studi scientifici e tecnologici. Essa però si colloca all’esterno del circuito dell’istruzione ufficiale, controllato dal clero.
L’intellighenzia islamica è divisa fra tre diversi atteggiamenti nei confronti della globalizzazione: c’è chi la rifiuta in quanto massima espressione dell’imperialismo e dell’invasione culturale; chi la accoglie con favore; e chi cerca di individuare una forma di globalizzazione adeguata alla propria realtà. In generale, però, l’aspetto tecnologico della globalizzazione è accettato e condiviso acriticamente da tutti i musulmani.
Povertà e sottosviluppo
Il mondo musulmano ha le potenzialità per uno sviluppo consistente, come emerge dal famoso Arab Human Development Report, redatto nel 2002 in ambito ONU: il Rapporto avvertiva che il mondo arabo-islamico è finito agli ultimi posti della graduatoria per via delle scarse capacità e opportunità offerte, nonostante l’abbondanza di risorse naturali. Entro il 2020, si prevede che la popolazione araba aumenti dagli attuali 280 milioni a circa 450 milioni di persone. Ma a quel punto sarà troppo tardi per impedire che gli abitanti del sud, pieni di frustrazione, si dirigano verso il nord. Intanto, gli Islamisti inneggeranno a un “nuovo” mondo musulmano.
I dati del notissimo World Values Survey segnalano che tra i seguaci della principali religioni del mondo, i musulmani sono quelli più ostili al mercato, e molti di essi risiedono nei paesi poveri. L’Islam prevede inoltre alcune pratiche particolari, quali il divieto di applicare il Riba (interesse) o l’obbligo di versare la Zakat (elemosina), che potrebbero fungere da nesso causale tra la credenza religiosa e i risultati economici. Ma gli attentati terroristici sono tanto indicativi quanto gli atteggiamenti che emergono dai sondaggi nei confronti degli stranieri e della globalizzazione. Anche i sondaggi del Pew Research Center sulle opinioni pubbliche evidenziano nella regione un forte grado di disagio nei confronti della globalizzazione.
La maggior parte dei paesi in via di sviluppo è stata esclusa dall’economia politica mondiale. In Medio Oriente, il reddito prodotto dal petrolio, la crescita delle forze armate e la nascita di una sotto-classe di burocrati, tecnocrati e professionisti pubblici hanno potenziato le capacità dello stato. D’altro canto, la volatilità delle entrate petrolifere ha costretto gli stati produttori di petrolio della regione a tentare alcuni aggiustamenti strutturali in campo economico, senza tuttavia mettere mano seriamente alle riforme politiche. Tali provvedimenti hanno prodotto esempi circoscritti di privatizzazioni, come nel caso della Giordania e della Siria, tagli ai sussidi governativi, come in Iran e in Iraq, e un crescente ricorso agli attori internazionali per il credito o gli aiuti, come in Libano, in Giordania e in Egitto.
Il Medio Oriente è secondo soltanto all’Africa nella classifica delle regioni meno sviluppate del pianeta. Ha già perso gran parte della sua importanza strategica con la fine dell’Unione Sovietica e, con il prezzo del petrolio tutt’ora attestato su livelli abbordabili, le prospettive di uno sviluppo sostenuto non sono affatto rosee. La maggior parte degli stati mediorientali forse possiede il personale tecnocratico e professionale necessario a garantire un’amministrazione efficiente e moderna. Quel che manca è la volontà delle élite al potere di superare gli antichi interessi di parte che in quei paesi guidano l’operato dei governi.
Al contempo, gli aspri conflitti sociali scatenati dai cambiamenti economici minacciano la legittimità e la stabilità dei regimi in carica. Alla luce delle restrizioni fiscali e della crescente opposizione da parte dei gruppi islamici, degli intellettuali, dei professionisti e della classe media in ascesa, i regimi mediorientali hanno tentato di varare parziali riforme politiche senza mettere seriamente a repentaglio lo status quo politico.
Eppure, sarebbe veramente necessario investire sulle classi povere, rendendole responsabili del proprio sviluppo, cominciando col riconoscere i diritti giuridici che tutelano i mezzi di sussistenza e consentono ai poveri di investire nel proprio futuro, sentendosi parte attiva della società. Va ribadito infatti che, dopo oltre quarant’anni di iniziative per lo sviluppo, la maggioranza della popolazione mediorientale continua a vivere in condizioni di povertà.
Il declino economico, in parte provocato dall’abbassamento dei prezzi del petrolio e del gas e dai tagli agli aiuti esteri – in particolare per l’Egitto e la Giordania – ha costretto alcuni stati mediorientali a “liberalizzare” le rispettive economie e a ritirarsi da settori essenziali quali l’istruzione, la sanità e la previdenza sociale. Nella maggior parte dei paesi della regione, l’attuale quota marginale dell’economia nazionale in mano al settore privato non potrà però espandersi senza il consenso dello stato, dato l’indiscusso controllo che quest’ultimo esercita sul mercato. Le difficoltà di realizzazione di un sistema capitalistico sostenibile e produttivo nella regione sono in gran parte dovute alle inefficienze di stati monopolistici a caccia di rendite, esasperate dalle influenze e dal controllo straniero. Si tratta di un vero sistema di sfruttamento.
Intanto, con l’aumento del costo del lavoro e l’abbassamento della quota di lavoratori qualificati e semi-qualificati rispetto ai lavoratori non qualificati in altre regioni, le prospettive di investimenti di capitali esteri nel prossimo futuro non sono affatto promettenti.
Eppure esiste la possibilità che un settore imprenditoriale di stato dinamico e razionalmente pianificato possa stimolare i mercati, adottare nuove tecnologie e portare rapidamente l’intera economia a un livello di crescita industriale auto-sostenibile.
Qualche progresso
Va detto, comunque, che il pregiudizio nei confronti della globalizzazione non è universale. Ad esempio, i ricchi Emirati Arabi Uniti hanno aperto le porte al libero scambio e alla libera circolazione dei lavoratori, e costituito società miste (pur continuando a circoscrivere notevolmente il controllo straniero). Gli Emirati non vedono i processi di globalizzazione e liberalizzazione come una minaccia. Nel prossimo decennio, i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) prevedono una crescita sostenuta sia in termini di popolazione sia di PIL. Secondo le stime, nel 2020 la popolazione del GCC dovrebbe raggiungere i 53,5 milioni di persone, con un incremento del 30 per cento rispetto al 2000. Nello stesso lasso di tempo, il PIL reale della regione dovrebbe crescere del 56 per cento. Il PIL nominale, pari a 341,6 miliardi di dollari nel 2000, dovrebbe superare 1 trilione di dollari nel 2010 e raggiungere 2 trilioni nel 2020, stando ai calcoli dell’Economist Intelligence Unit.
Il problema è che, in assenza di controlli, una simile crescita rischia anche di provocare effetti collaterali quali l’insufficienza energetica e impennate dei prezzi, in particolare dei generi alimentari. Alcuni stati del GCC sono già alla prese con sporadiche carenze di elettricità e gas, mentre le riserve di acqua sono già sotto pressione e la penuria di generi alimentari spaventa una regione che dipende dalle importazioni. Di conseguenza, una sfida cruciale per i paesi del Golfo nel prossimo decennio sarà quella di gestire le risorse energetiche, idriche e alimentari al fine di garantire nel lungo periodo sia un alto livello di vita sia una crescita sostenibile.
I paesi del GCC devono inoltre riuscire a diversificare decisamente le loro economie, per non continuare a dipendere dagli idrocarburi. Questo perché, nonostante il fatto che controllino il 40 per cento delle riserve mondiali di petrolio conosciute e il 23 per cento delle riserve effettive di gas, quei paesi devono preservare le risorse di idrocarburi in quanto la loro conservazione è fondamentale in un’ottica finanziaria. Questi governi sanno che consumando combustibili fossili per generare elettricità si riducono le quantità destinate all’esportazione: lo sviluppo a lungo termine della regione dipende dall’investimento in fonti alternative e in tutti i settori a basso consumo energetico, nonché il settore dei servizi collegati.
Un altro esempio degno di nota è quello della Tunisia, dove la globalizzazione sembre essere interpretata soprattutto in un’ottica economica e sociale. Sul fronte politico, sono ammesse soltanto quelle riforme che non mettono in discussione il predominio dell’élite al potere. La stabilità della Tunisia si basa su uno stato che è essenzialmente autoritario. Tuttavia, la Tunisia è tra le economie che crescono più rapidamente in tutto il Medio Oriente e sta realizzando un’integrazione sempre più forte con l’Unione Europea attraverso i legami commerciali, sociali e intellettuali.
Una visione di lungo periodo
Mantenere lo status quo oggi costa allo stato e alla società più di prima. L’instabilità politica, l’islamismo e la percezione di minacce esterne alla sicurezza hanno contribuito a giustificare l’acquisto di armi da parte dei governi della regione. Ma, per via dell’alto livello della spesa militare, i governi mediorientali hanno investito meno nello sviluppo economico e sociale (a cominciare dai settori dell’istruzione e della sanità). Questi problemi sono particolarmente acuti nel Golfo e nei paesi musulmani dell’Asia, dove la popolazione è giovane e cresce rapidamente.
Qui si combinano rischi e opportunità, e alcuni recenti sviluppi sono sintomatici in tel senso: da quando la Turchia e la Siria hanno eliminato le restrizioni ai confini, il commercio regionale ha registrato una forte espansione. Questo è un segno della crescente influenza della Turchia sulla Siria, che rientra nello sforzo compiuto da quel paese per avvicinarsi ai suoi vicini e costruire legami economici, sperando che ciò contribuisca anche a stabilizzare le relazioni politiche e a espandere la sua influenza nella regione. Questi eventi, che comprendono tra l’altro iniziative imprenditoriali in Iran, mostrano in una certa misura quanto siano diventati vani gli sforzi degli Stati Uniti di isolare i paesi ritenuti “problematici” attraverso le sanzioni. Hanno anche destato preoccupazione a Washington e in Israele, dove ci si chiede se la Turchia, membro-chiave della NATO, non stia rivedendo radicalmente le sue posizioni. Tuttavia, gli sforzi del paese sembrano concentrarsi tanto sull’espansione economica quanto sulla politica estera, con una strategia aggressiva di ricerca di nuovi mercati. Con la ricchezza raccolta nei mercati emergenti e una crescente fiducia in sé in quanto membro del G20, la Turchia dialoga tanto con gli europei quanto con i suoi vicini musulmani.
Nel complesso, gli atteggiamenti del mondo arabo e islamico nei confronti della globalizzazione sono legati a due variabili: le opportunità strutturali e le cornici normative del pensiero islamico. Più un movimento islamico, ad esempio, trae vantaggio dalle opportunità strutturali create dalla globalizzazione, più diventa favorevole alla globalizzazione. Allo stesso modo, più il quadro normativo di un movimento islamico è tollerante e aperto all’interazione culturale, più diventa favorevole alla globalizzazione. L’economia politica internazionale del dopo-Guerra Fredda ha intensificato la competizione economica tra i paesi sviluppati. Ma per i paesi in via di sviluppo i nuovi assetti economici e politici sono assai meno incoraggianti. II nuovi gruppi islamici sono stati reclutati soprattutto nelle città e nei quartieri poveri. La povertà e le difficoltà economiche, oltre il perpetuarsi del conflitto arabo-israeliano e la guerra guidata dagli Stati Uniti in Iraq, hanno fatto crescere in maniera esponenziale l’anti-americanismo nel mondo musulmano, ma hanno anche alienato la maggioranza delle popolazioni. L’impressione diffusa è, insomma, che le minoranze al potere – minoranze corrotte, autoritarie e repressive – siano alleate con gli Stati Uniti, faro e guida della globalizzazione. Le politiche fallimentari di questi regimi hanno così innescato una ulteriore fase di radicalizzazione. Oggi è con questo quadro complessivo che dobbiamo confrontarci in Medio Oriente.