international analysis and commentary

L’asse Pechino-Islamabad: attivismo prudente

262

Era scontato che i rapporti tra Pakistan e Cina fossero destinati ad approfondirsi: sia come immediata conseguenza dell’accordo nucleare tra USA e India del 2008, sia per l’insofferenza di una parte dell’establishment di Islamabad nei confronti delle scelte di Washington che ruotano intorno alla exit strategy in Afghanistan. Questo processo si interseca ovviamente con l’andamento delle relazioni Cina-Usa, e  con il quadro strategico, in confusa evoluzione, dell’Asia centro-meridionale. Si sono registrati recentemente almeno tre avvenimenti significativi in rapida successione: l’annuncio di un’intesa per la costruzione da parte di società cinesi di due impianti nucleari a Chashma, nel Punjab pachistano; esercitazioni militari congiunte sino-pachistane; la visita, durata quasi una settimana, del presidente pachistano Asif Ali Zardari a Pechino.

Partendo dagli accordi sul nucleare, su questo tema convergono grandi interessi: energia alternativa, deterrente di fronte a minacce esterne, ma anche commesse miliardarie, così allettanti da rendere accettabili anche alcuni rischi di natura diplomatica e militare. Solo il mercato indiano, è stato calcolato, offre a chi abbia la capacità tecnica per entrarvi un potenziale di 150 miliardi di dollari. E questa considerazione non è certo estranea alla conferma senza alcuna obiezione da parte di Obama della linea Bush circa l’intesa del 2008 con l’India. Washington ha poi richiesto con forza, e ottenuto dal Nuclear Suppliers Group (che deve fornire guidelines per l’esportazione e l’utilizzazione di materiale destinato alle centrali atomiche) di approvare la “eccezione indiana” e quello che di fatto è un doppio standard, visto che l’India sta ricevendo un trattamento di favore pur non essendo firmatario del Trattato di Non Proliferazione Nucleare. La spiegazione sta nella volontà di Paesi come Russia, Francia e Giappone di potersi a loro volta muovere liberamente (in India e altrove) con la certezza peraltro di non ricevere rampogne dagli americani.

In tale contesto, anche le mosse cinesi quindi non stupiscono. E non sono bastate a fermarle le obiezioni sulla  scarsa affidabilità del Pakistan: il precedente di A.Q. Khan, il padre della bomba pachistana, che ne ha contrabbandato i piani di costruzione in Iran, Corea del Nord e Libia, è valutato nell’ottica di un rischio “accettabile” per Pechino. Semmai i cinesi potrebbero essere sensibili a reazioni dure dell’India, perché la loro linea strategica sembra essere caratterizzata da un appeasement nei confronti del grande vicino del Sud. A conferma di un dialogo in corso, per quanto difficile, proprio alla vigilia della visita di Zardari a Pechino (la quinta in due anni) ha avuto luogo una delicata missione in Cina del consigliere per la sicurezza nazionale indiana Shivshankar Menon, con l’incarico di fare sentire le ragioni del suo governo e di chiedere quantomeno un rinvio nell’attuazione dell’accordo nucleare col Pakistan.

In effetti, se la visita di Zardari ha dato il segno di quanto siano oggi intensi i rapporti tra Islamabad e Pechino, mentre questa era in corso si è preferito non insistere troppo sul nucleare. Zardari, ad esempio, ha spiegato che il suo paese ‘’deve confrontarsi con una forte penuria di energia e vuole accrescere di magliaia di megawatt le sue potenzialità produttive attraverso un mix di centrali idroelettriche, a carbone, a gas, nucleari ed energia rinnovabile”. Le fonti ufficiali cinesi, in risposta a questo messaggio si sono limitate a riferire che Il Dipartimento nazionale cinese per l’energia  lavorerà con la controparte pachistana per definire i modi di venire incontro alle esigenze di Islamabad. Si è anche fatto riferimento a un interessamento da parte di società del settore idroelettrico, mentre nulla è stato detto circa quelle impegnate nel nucleare.

Più in generale si è parlato di una rinnovata “partnership e collaborazione strategica” che quanto meno significa una cosa: tra India e Pakistan, l’interlocutore privilegiato per la Cina è e resterà a lungo il Pakistan, prescindendo da chi lo governa. Ciò almeno per due motivi. In primo luogo, è vitale per la Cina impedire – con riferimento al separatismo degli uighuri – infiltrazioni del terrorismo a sfondo etnico-religioso, come condizione per la stabilità di quella regione occidentale in cui si vanno scoprendo sempre più ingenti riserve di materie prime come ferro, rame, uranio e attraverso cui passano le pipeline che potano gas e petrolio dal Caspio. Islamabad ha la chiave di tale stabilità, controllando le frontiere per evitare che al Qaeda aiuti i militanti uighuri del Partito islamico del Turkestan, e la recente cattura in Norvegia di terroristi uighuri affiliati ad Al Qaeda (in procinto di compiere attentati in Occidente) sembra indicare che tale raccordo esiste davvero. La collaborazione nella lotta antiterrorismo è dunque essenziale per Pechino.

In secondo luogo, il Pakistan apre essenziali vie di comunicazione verso sud e in particolare verso il porto di Gwadar, costruito e gestito dalla Cina. L’idea, ribadita anche nel corso della visita di Zardari, sarebbe di costruire una nuova strada e una ferrovia che da Kashgar, nello Xinjiang, arrivino a Gwada per dare finalmente corpo al progetto del Corridoio commerciale nazionale. Altissimi costi e problemi di sicurezza (anche perché l’India ha già dichiarato che il piano rappresenta una minaccia ai suoi interessi nazionali), ma un percorso di soli 1100 km al posto degli attuali lunghissimi trasferimenti via mare da Gwadar ai porti cinesi.

Lo sbilanciamento della Cina sull’asse con il Pakistan appare pertanto destinato a restare uno dei pochi punti fermi nel panorama delle relazioni internazionali della regione in un contesto di “avvicinamento della Cina all’Oceano Indiano” che, come ha sottolineato Robert Kaplan su Foreign Affairs, non va comunque paragonato a quella corsa dell’URSS ai “mari caldi” che costituì benzina sul fuoco della guerra fredda. L’espansionismo “civile” cinese, sostenuto dalla enorme riserva in valuta, procede in tutte le direzioni – Oceano Indiano non meno di Siberia, Asia centrale, Africa – ed è alimentato da evidenti convergenze economico-finanziarie. A Islamabad, ad esempio – lo si è visto in questi giorni – Pechino offre una rilocalizzazione delle sue industrie nella “nuova zona industriale pachistana” attualmente in costruzione: allo scopo si è deciso di aprire filiali di banche cinesi in Pakistan e il Ministero del Commercio si è impegnato a dare il suo contributo.

L’avvicinamento Usa-India costituisce uno stimolo in più, ma non è determinante, anche perché a Pechino si è consapevoli che quest’ultimo rientra nella logica delle cose. L’India ha bisogno degli Usa per la propria sicurezza, che a sua volta è la chiave dello sviluppo economico. La pedina indiana serve d’altra parte a Washington – al di là degli interessi più direttamente economici – per mantenere un equilibrio dinamico in Asia che coinvolge la Cina ma anche il Giappone. 

Le incertezze – e le preoccupazioni – provengono  invece dal Pakistan, stretto a tenaglia tra due crisi, quella dell’Afghanistan e quella del Kashmir, di cui neppure si intravede una soluzione. L’India incalza il Pakistan proprio  in quello che Islamabad ritiene il suo cortile di casa, l’Afghanistan, e ha buoni motivi per accusare il vicino di sponsorizzare i terroristi che seminano morte dalla ambasciata indiana a Kabul agli alberghi di Mumbay. Vecchi e nuovi rancori si accumulano con effimeri sprazzi di riconciliazione.

Sempre più delicato e difficile diventa allora il compito di Cina e Usa che, nelle comuni vesti di pompieri ma perseguendo interessi non coincidenti interessi, sono probabilmente le uniche potenze in grado di evitare che il Pakistan e l’India – ottanta testate nucleari attribuite al primo, cento alla seconda –  provochino un disastroso incendio.