international analysis and commentary

L’Arabia Saudita tra politica regionale e sfide interne

371

L’assetto politico mediorientale, in costante e drammatica evoluzione, ha posto all’Arabia Saudita una serie di sfide nuove, davanti alle quali i sauditi agiscono per espandere la propria influenza, ma anche per conservare i loro stessi equilibri interni.

Anzitutto, prosegue e si intensifica la competizione regionale con l’Iran in termini di soft power: Riyād, dopo aver perso influenza sull’Iraq autoritario e filo-sciita di Nouri al-Maliki e intrapreso una strategia di contro-rivoluzione – con tattiche differenziate – nella Penisola arabica (Bahrein, Yemen, Oman), punta ora a guadagnare spazio nella Siria del dopo-Assad. Nonostante sia ancora arduo prevedere quale fisionomia di potere emergerà dalle macerie del conflitto civile, influenzare Damasco significa condizionare anche fortemente la scena politica libanese: per la terza volta in tre mesi, l’ambasciatore saudita a Beirut ha incontrato il generale Michel Aoun, leader del Free Patriotic Movement in rotta di collisione con l’alleato Hezbollah. Segno che, insieme allo storico legame con la famiglia sunnita degli Hariri, l’Arabia sta provando ad allargare la propria rete di relazioni in Libano.

A oltre due anni dall’inizio delle rivolte arabe, stanno emergendo due dinamiche che potrebbero mettere in difficoltà Riyād: la competizione ideologica e finanziaria intra-sunnita e il riacutizzarsi della tensione regionale fra sciismo e sunnismo. Nel primo caso, la corsa ad armare le opposizioni al regime di Bashar al-Assad sta di nuovo allontanando Arabia Saudita e Qatar. Mentre i sauditi temono le ricadute interne del rafforzamento delle forze jihadiste in Siria (su tutte Jabhat al-Nousra), Doha mostra un approccio più spregiudicato, sostenendo un composito gruppo di attori anti-regime. Il Consiglio Nazionale Siriano ha di recente eletto un esponente tribale vicino ai sauditi, Ahmad Assi Jarba, come nuovo presidente: oltre alla sconfitta del candidato sostenuto dal Qatar, ciò permette un ridimensionamento interno della componente politica legata alla Fratellanza musulmana. Anche in quei paesi in cui il cambio di regime ha aperto il sistema politico, alimentando la competizione fra partiti (Tunisia, Egitto, Libia), sauditi e qatarini hanno scelto di seguire due strade differenti e potenzialmente confliggenti: se Riyād finanzia le formazioni salafite più vicine al wahhabismo e che hanno accettato di partecipare al gioco politico (come l’egiziana al-Nour), Doha privilegia il sostegno ai partiti che si ispirano alla Fratellanza musulmana (come Ennahda in Tunisia, il partito Libertà e Giustizia in Egitto). Un ideale, quello del riformismo islamico propagato dagli Ikhwan, che gli al-Sa‘ud considerano minaccioso, poiché sfida i fondamenti religiosi su cui la casa reale ha costruito la propria legittimità politica.

In Egitto, la destituzione del presidente Mohammed Morsi e la deludente prova di governo offerta dalla Fratellanza potrebbero allora aprire ai sauditi nuovi canali di influenza mediante la galassia salafita. Complice una crisi economico-sociale di lunga e difficile risoluzione, insieme a una possibile polarizzazione del quadro politico interno, parte del voto in uscita dagli Ikhwan potrebbe indirizzarsi proprio ai salafiti, soprattutto tra le fasce rurali più disagiate e nell’inquieto delta del Nilo, già serbatoi di consenso di tali formazioni politiche. E se il Qatar ha tiepidamente salutato la nomina del presidente ad interim egiziano Adly Mansour, re Abdullah e i media sauditi si sono subito congratulati con il nuovo capo dello Stato e con l’esercito del Cairo.

Per ciò che riguarda le macro-tensioni settarie, l’Arabia Saudita è geograficamente circondata da minoranze sciite: è il caso delle proteste in Bahrein e dell’insorgenza huthi (sciiti zaiditi) nei governatorati settentrionali dello Yemen. Il regno saudita teme le possibili conseguenze interne di entrambi gli archi di crisi. Gli sciiti bahreiniti, accusati di essere manovrati da Teheran, sono arabi baharnah, legati – per genealogia e dialetto – a quelli della regione orientale del regno. Oltre a finanziare una madrasa salafita a Dammaj, le forze di sicurezza saudite sono più volte sconfinate in territorio yemenita al fine di aiutare l’esercito di Sana’a nella lotta ai dissidenti huthi. Ed è assai probabile che ciò continui, dato che il capo politico del movimento, Saleh Habra, ha ricevuto, per la prima volta in via ufficiale, l’ambasciatore iraniano in Yemen.

Sullo sfondo, infatti, permane il timore che Teheran fomenti la sedizione delle comunità sciite contro le autorità sunnite locali. Contro le manifestazioni sciite nel paese (con epicentri al-Qatif, al-Awamiya, al-Hufuf nell’area di al-Ahsa), la monarchia saudita è solita adoperare la retorica settaria – additando il complotto del nemico esterno – per deviare l’attenzione dalle cause profonde di malcontento della popolazione. Tuttavia, una lettura esclusivamente confessionale delle ripetute dimostrazioni degli sciiti sauditi (costate almeno sedici morti dal dicembre 2010) è fuorviante: come denuncia un report del King Faisal Center for Islamic Studies del febbraio 2012, il disagio sciita nasce dalla deprivazione economico-sociale. Diseguaglianza che poi si cristallizza in scontro inter-confessionale, come rappresentato dai cortei sciiti repressi da corpi di polizia sunniti (ciò che avviene anche in Bahrein). Gli sciiti sauditi, al pari dei vicini del Bahrein, guardano all’esperienza dello sciismo iracheno, nonché alla predicazione quietista dell’ayatollah Ali al-Sistani (con piccole eccezioni, come Hezbollah al-Hijaz, gruppo estremista oggi confluito nel filo-khomeinista Khat al-Imam).

Il paradosso è che, mentre il Consiglio superiore degli ‘ulama emette fatwa per condannare le manifestazioni in quanto portatrici di fitna (disordine) fra gli islamici, le stesse autorità politico-religiose strumentalizzano la frattura settaria per isolare la minoranza sciita; questa è del resto già divisa al suo interno (e ciò favorisce la monarchia) tra il movimento Islahiyyin (Riformisti) del religioso Hassan al-Saffar – che da tempo dialoga con il potere di Riyād – e i network giovanili, riuniti sotto l’ombrello della Coalizione Libertà e Giustizia.

Le diffuse richieste di riforme sociali non sono riuscite finora a saldarsi e a fare massa critica, mentre le petizioni si moltiplicano: due manifesti, uno di orientamento liberale (The Declaration for National Reform), l’altro di segno islamico (Towards a State of Rights and Institutions), hanno raccolto molte adesioni. Ma l’attivismo civile online sembra rimanere sconnesso dalla piazza: i giovani sauditi agiscono per ora da netizens ancor prima che da citizens.

Su questo sfondo complesso, la questione della successione a re Abdullah ha acuito le rivalità fra l’ala cautamente riformatrice (incarnata dallo stesso 89enne sovrano) e quella conservatrice (riconducibile al clan dei Sudayri) della casa reale: tale contrapposizione sta condizionando sia le risposte al disagio sociale saudita che la formazione della politica estera del paese, specie in relazione ai delicati dossier Bahrein e Siria. A riguardo, mentre prosegue la fornitura di armi attraverso i confini giordano e turco, l’iniziale entusiasmo dei vertici sauditi per il fronte anti-Assad è andato gradualmente affievolendosi. E ciò ha consentito un riavvicinamento tattico di Riyād a Washington, vista la prudenza che fin qui ha caratterizzato l’azione dell’amministrazione Obama sulla crisi di Damasco. In un contesto regionale così teso, la Casa Bianca sembra focalizzarsi soprattutto sulla questione iraniana e spinge affinché i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) diano vita a una piattaforma di difesa anti-missilistica comune; se ne discute da tempo ma non vi è consenso neppure sulla sede del comando centrale, se l’Arabia o gli Emirati Arabi Uniti – proprio di fronte a Teheran.

Il carattere nebuloso dello scenario siriano suggerisce comunque una considerazione. Nei decenni passati, i regimi di Siria e Arabia Saudita avevano saputo sviluppare forme di cooperazione, in nome della comune arabità; ora, seppur egemonizzata dalla parte sunnita, la frammentata Siria post-Assad potrebbe, per Riyād, rivelarsi un partner assai più ostico della repubblica autoritaria alawita. Al di là della crescente divaricazione fra sciismo e sunnismo, ciò permette di comprendere quanto il sistema di relazioni inter-statali arabe sia divenuto, dopo le rivolte iniziate nel 2010-2011, ancora più complicato. Anche per il gigante sunnita.