international analysis and commentary

L’America, l’Europa e la nuova sfida irachena

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Poi la storia dirà: la mia impressione, per ora, è che i raid mirati di Barack Obama in Iraq – a difesa delle minoranze cristiane e Yazidi colpite dall’ISIS e in appoggio ai vecchi alleati curdi – segnino comunque un passaggio. Il passaggio degli Stati Uniti a una strategia di contenimento (del terrorismo islamico, anzitutto). Si spengono – mentre bambini cristiani vengono sepolti vivi dai miliziani di un Califfato immaginario a cavallo fra Siria ed Iraq – le residue illusioni americane di potere risolvere le crisi mediorientali. Ma si evitano tentazioni isolazioniste. Proprio mentre è costretta a rientrare nel conflitto iracheno – con tutte le incertezze descritte da Roberto Toscano su La Stampa – l’America definisce così i limiti impliciti della propria presenza in un Medio Oriente allargato che assomiglia a una polveriera. E dichiara nei fatti il suo atteggiamento: gestione (parziale) delle minacce piuttosto che soluzione delle crisi.

Nel frattempo l’Europa condisce di aiuti umanitari i propri plausi di incoraggiamento a Washington. La differenza è in fondo questa: in America si fa, nel male e nel bene. In Europa si discute ancora cosa fare, al di là degli aiuti inglesi lanciati dal cielo, dell’assistenza francese ai cristiani iracheni (il ministro degli Esteri Fabius è stato in Kurdistan) e dei primi aiuti erogati dalla cooperazione italiana. Raid militari mirati da una parte, aiuti umanitari dall’altra: è la vecchia divisione dei compiti, figlia della convinzione che la sicurezza europea possa sempre essere – come è avvenuto dal 1945 in poi – garantita da altri. Non è più il caso di avere troppe illusioni, temo: il ripiegamento parziale degli Stati Uniti, reso fra l’altro sostenibile dalla nuova indipendenza energetica, ha implicazioni anche per l’Europa. Che deve, a sua volta, fare i conti con la realtà.

Noi europei, che siamo più immediatamente esposti alle crisi del Medio Oriente, che abbiamo giovani cittadini rapiti, che vediamo le comunità cristiane decimate e attaccate, che temiamo il terrorismo islamico nelle periferie delle nostre città, noi europei che strategia abbiamo? Ci occupiamo dei drammi di Gaza, avendo deciso – sbagliando, io credo – che sia l’unico fronte che interessi all’Europa. Il nostro Medio Oriente, dopo le delusioni dell’intervento in Libia, sembra cominciare e finire lì. E quando da Bruxelles, nel solito comunicato, si scrive che l’UE “è estremamente preoccupata per il grave peggioramento della situazione in Iraq”, ci si chiede fino a quando la cosiddetta politica estera comune potrà continuare ad essere fondata su formule burocratiche.

L’Italia sostiene che il Mediterraneo è il “cuore” dell’Europa. Può darsi, ma la realtà è che la maggior parte delle ambasciate europee (non la nostra) sta lasciando Tripoli, mentre la guerra di Siria, dopo avere esportato centinaia di migliaia di rifugiati in Giordania e in Libano, si diffonde in Iraq e dal Nord dell’Iraq lambisce i confini con la Turchia. Già, la Turchia: alle prese con le pulsioni presidenziali di Erdoğan e vittima di illusioni “neo-ottomane” che non hanno retto alla prova dei fatti – al ritorno dei militari in Egitto, in particolare – la Turchia è ormai fuori dai radar europei. Mentre la crisi ucraina rende meno scontata di prima la cooperazione con Mosca sui vari fronti mediorientali, incluso il negoziato con l’Iran.

Difficile, obiettivamente, misurarsi con una situazione peggiore. A differenza dell’America lontana, l’Europa è qui – qui dove arriva, attraverso le maglie bucate della Libia, il nuovo traffico di essere umani. L’Europa non ha gli strumenti comuni per una politica di contenimento e non può contemplare un disimpegno strategico.

Dal 2008 in poi, abbiamo valutato solo il rischio “euro”: se e come la moneta unica avrebbe potuto disgregare l’Unione Europea. Il rischio, per la tenuta futura dell’UE, è molto più complicato: è anche, forse anzitutto, un rischio geopolitico. Il problema è che parte delle misure necessarie (controllo del deficit e del debito) per tenere in vita l’euro riducono la possibilità di investire negli strumenti indispensabili (sicurezza, politica estera, difesa) per tenere sotto controllo il rischio geopolitico. Sicurezza dell’euro e sicurezza europea sembrano così viaggiare – paradossalmente – su binari separati e almeno in parte contrastanti. Mentre si incendiano le aree ai confini, l’Europa rischia l’introversione e continua a cullarsi nell’illusione di potere essere una “Grande Svizzera”. La verità è che non è più possibile. Tanto meno quando gli Stati Uniti, grande potenza del Mediterraneo da Suez in poi, stanno diventando la potenza limitata e selettiva annunciata in questi giorni da Barack Obama.

 

Una versione di questo articolo è stata pubblicata sul quotidiano La Stampa.