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L’America di Sarah Palin

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Rispetto a qualsiasi altro potenziale candidato alla presidenza degli Stati Uniti, Sarah Palin può contare sul fatto di essere indispensabile. Se ne può pensare bene o male, la si può considerare una sincera paladina del conservatorismo o una boutade per attaccabrighe, si può ridere delle sue proverbiali gaffe o prendere terribilmente sul serio i proiettili retorici che spara attraverso Facebook e Twitter, ma, quasi per un paradosso della comunicazione, il clima politico americano è unito dalla divisione nei confronti di Palin. Anzi, il suo asset politico più rilevante è proprio il fatto che abbia diviso nettamente l’opinione pubblica americana in due categorie: quelli che la amano e quelli che la odiano. Anche gli osservatori più snob non possono esimersi dal commentare le sue prese di posizione e qualsiasi cosa l’ex governatrice dell’Alaska dica o faccia – che sia un reality show o un commento radiofonico alla crisi coreana – diventa un tema politico imprescindibile. Lo status di politico indispensabile Sarah Palin se l’è costruito nel tempo, con una strategia che dietro al flusso apparentemente casuale delle comparse mediatiche ha qualcosa di scientifico. Dopo la sconfitta del ticket di John McCain alle presidenziali, Palin ha scelto la via della campagna elettorale permanente, nel tentativo di uscire da quella zona grigia di irrilevanza in cui sono finiti altri storici candidati conservatori che emergono nella scena che conta soltanto in concomitanza dell’impegno elettorale. Sono pochi gli americani che sanno esattamente che cosa fanno Mitt Romney o Mike Huckabee nella loro attività politica quotidiana; Sarah Palin è sovraesposta e di lei si sa tutto, e forse anche troppo, dicono i suoi critici, ma è sempre sulla cresta dell’onda. Sul quotidiano Politico il presidente di Americans for Tax Reform, Grover Norquist, e il chairman dell’associazione GOProud, advocacy group conservatore per i diritti dei gay, Christopher Barron, hanno espresso un punto di vista originale sulla parabola politica di Palin, che può essere riassunto in una formula: non amiamo Sarah Palin, ma la sua presenza politica non può essere che un bene per il processo democratico. “Se deciderà di candidarsi (alle elezioni presidenziali del 2012, ndr) i repubblicani di tutte le correnti dovrebbero applaudire la sua decisione. Non è un endorsement alla sua candidatura. È un endorsement al suo diritto a partecipare alla corsa,” hanno scritto i due influenti attivisti di area repubblicana, toccando un tasto profondo della cultura americana, quello della rappresentanza popolare.

Le elezioni di midterm hanno mostrato una situazione di estrema polarizzazione politica e il fenomeno del Tea Party è la spia di un sentimento popolare che fatica ad incanalarsi nei binari della stretta rappresentanza dei partiti. Sarah Palin da una parte si è identificata con gli attivisti e i candidati del Tea Party, dall’altra ha usato la lotta intestina dei repubblicani per promuovere una narrativa squisitamente personale. Non a caso aveva previsto l’uscita del suo secondo libro, America by Heart, proprio per il periodo post elettorale, quando l’opinione pubblica americana, una volta rinsavita dall’ubriacatura del voto, avrebbe avuto bisogno di fissare volti e nomi a cui affidarsi per il futuro. America by Heart non è altro che il precipitato della seconda fase politica di Palin: la prima si era consumata con la candidatura vicepresidenziale e la retorica dell’ “hockey mom”, la casalinga senza grilli per la testa o ambizioni salottiere che lavora sodo per tirare avanti la casa; la seconda è quella patriottica e battagliera delle “mama grizzlies”, un’organizzazione soltanto apparentemente sfilacciata ma in realtà ben oliata da una potente rete di amicizie trasversali. In poco più di dieci giorni America by Heart si è piazzato al secondo posto della classifica delle vendite, subito dietro a Decision Points, le memorie di George W. Bush. Il comitato politico di Palin, SarahPac, ha comprato a prezzo scontato 64 mila copie del libro e – con una grande operazione di marketing – le ha regalate a tutti i donatori che avevano contribuito alla causa di Palin con più di cento dollari. Un buon propulsore delle donazioni, che – secondo i dati della Federal Election Commission – in una settimana sono arrivate alla somma di 500 mila dollari, mentre nei tre mesi precedenti il comitato aveva di poco superato il milione. Sarah ha sapientemente ordito un climax ascendente che è culminato con la dichiarazione, ai microfoni della ABC, che lei “può battere Obama” alle presidenziali. Candidatura, sebbene non esplicita, che ha suscitato reazioni diverse. Una parte dell’America si identifica senz’altro nella grassa risata che si è fatto in diretta televisiva il vicepresidente Joe Biden quando gli hanno riportato le parole di Palin; ma un’altra parte del paese non ha riso. È la fetta di elettorato che sostiene Sarah, che versa dollari nelle casse del suo network, che guarda Fox News (che continua a essere il network più seguito d’America), che di fronte agli sfottò sui suoi lapsus linguae di Palin risponde piccata; è quella parte dell’elettorato che non ha riso quando ha sentito che lei era davvero convinta di battere Obama. Le elezioni di midterm hanno mostrato che il mercato elettorale non mente: i candidati impresentabili e picareschi sono stati bocciati, mentre gli elettori hanno premiato la credibilità, anche nello stesso ambito del Tea Party. Che Sarah Palin sia uscita più forte dal grande calderone della politica repubblicana dimostra che è riuscita a guadagnare la fedeltà di una fetta di elettorato che difficilmente le potrà essere tolta. Segno che una parte dell’America si sente rappresentata da lei e dalla sua campagna elettorale permanente; e difficilmente alle urne questa fetta d’America accetterà di dare fiducia ad un candidato a intermittenza.