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L’ambiguo e complesso rapporto tra Obama e i militari

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Negli Stati Uniti il rapporto tra militari e politici, Casa Bianca e vertici delle forze armate, è stato storicamente complesso e ambiguo. Eroi di guerra e icone nazionali – come George Washington, Andrew Jackson, Ulysses Grant e, in tempi meno lontani, Dwight Eisenhower – hanno speso la loro popolarità per accedere alla presidenza. In diverse occasioni – si pensi solo allo scontro tra Harry Truman e il generale Douglas MacArthur durante la guerra di Corea – il presidente si è trovato costretto a riaffermare sia il suo ruolo di comandante in capo sia il primato del potere civile su quello militare. Nell’ultimo secolo, la crescita della potenza statunitense ha determinato la progressiva espansione di un apparato di sicurezza, uno “Stato di sicurezza nazionale”, fattosi nel tempo sempre più esteso, intrusivo e oneroso; una struttura, questa, capace nel tempo di aumentare il suo peso istituzionale e, di riflesso, la sua influenza politica ed economica.

Il dopo-guerra fredda e, ancor più, il post-11 settembre 2001 hanno ulteriormente accresciuto l’importanza di questo “Stato di sicurezza nazionale”, pur con rilevanti mutamenti al suo interno (l’aeronautica, così centrale negli anni Novanta, ha subito un drastico ridimensionamento a favore dell’esercito e dei Marines) e in un contesto nel quale cresceva esponenzialmente il ruolo di soggetti privati, i famosi contractor, cui il governo subappaltava competenze e funzioni senza precedenti. Lo stato di guerra permanente venutosi a creare dopo gli attentati del 2001 e il fatto che l’elemento militare sia il più rilevante della superiorità di potenza degli USA hanno contribuito ad alimentare la sua centralità – dei suoi esponenti, dei suoi simboli e dei suoi codici – in un discorso pubblico che in una certa misura si è esso stesso vieppiù militarizzato. Dopo i tagli degli anni Novanta, la spesa per la difesa è tornata a salire a livelli significativi, avvicinandosi con George W. Bush al 5% del PIL. Combinandosi con un crescente rigetto della politica, ciò ha ulteriormente alimentato una retorica che celebra il patriottismo e il senso di sacrificio degli uomini e delle donne delle forze armate. I quali, però, sembrano costituire ormai una realtà a sé stante più che un’espressione della società nel suo complesso. Questo non tanto in termini di reddito, livelli d’istruzione ed estrazione sociale, rispetto ai quali molte leggende devono essere sfatate (una percentuale maggioritaria dei militari in servizio viene da famiglie con redditi alti e medio-alti; solo l’1.5% non ha un diploma di scuola media superiore; le minoranze non sono così sovra-rappresentate come si crede); quanto per il fatto che solo una percentuale minima degli americani ha ormai esperienza, diretta o indiretta, del servizio militare.  

È un mondo a sé stante, quello militare, celebrato, osannato ed esibito in continuazione, ma anche raramente consultato nonostante la propensione a farne uso – anche per scopi non strettamente militari – sia di molto cresciuta nell’ultimo ventennio. È questo, forse, il paradosso più rilevante cui si è assistito nel dopo-guerra fredda: alla rilegittimazione della guerra, e alla magnificazione di chi la conduce, è corrisposta una decrescente influenza dei vertici militari. Beneficiari, da un lato, delle dinamiche appena descritte, essi sono divenuti sempre più oggetti nelle mani di un potere politico pronto a farne un uso talora poco considerato e con un’opinione pubblica disinteressata e nella gran parte non direttamente coinvolta. Gli effetti si sono visti bene durante gli anni di Bush figlio, in particolare dopo l’intervento in Iraq, quando si assistette a un significativo deterioramento dei rapporti tra militari e amministrazione. Durante il suo secondo mandato, figure come i generali David Petraeus e Stanley McChrystal parvero infatti inclini a sottrarre l’iniziativa ai civili del dipartimento della Difesa e acquisire una funzione quasi supplente rispetto a un potere politico rivelatosi inetto e irresponsabile.

Anche per questo, l’elezione di Obama suscitò reazioni ambivalenti nei circoli militari. Un mondo in maggioranza conservatore, culturalmente e politicamente, e quindi diffidente verso il nuovo presidente. Ma un mondo anche profondamente irritato dagli eccessi interventisti degli anni di Bush e attratto dalla promessa di Obama di modificare in profondità la politica estera e di sicurezza del paese, riducendo l’esposizione delle forze armate statunitensi tramite una gestione più razionale e meno ideologica.

Eppure oggi, a quasi sei anni dall’elezione di Obama, le cronache ci parlano di un rapporto, quello tra il presidente e i vertici delle forze armate, forse addirittura peggiore di quanto non fosse negli anni di Bush. Della brevità della luna di miele (se mai ve n’è stata una) tra Obama e i generali è possibile dare almeno quattro spiegazioni. Le prime due sono, in una certa misura, strutturali e ineludibili: la diffidenza politica e finanche personale che molti militari appunto nutrono nei confronti del presidente e l’operare di una dialettica fisiologica tra potere militare e potere civile. È sulle altre due spiegazioni che è quindi necessario soffermarsi, per comprendere meglio le responsabilità di Obama rispetto al deterioramento di questo rapporto. Innanzitutto, da parte militare s’imputa a Obama di avere perseverato nell’errore che fu già di Bush (e in parte di Clinton): quello di considerare il mezzo militare come facilmente spendibile, senza valutare con la dovuta attenzione costi e conseguenze del suo utilizzo; quindi di fornire ambiziose e talora irrealistiche indicazioni strategiche senza accettare le implicazioni tattiche che ne derivano, soprattutto se politicamente sconvenienti.

I casi di Siria e Afghanistan offrono due chiari esempi. Sulla Siria Obama ha minacciato il ricorso allo strumento militare, attraverso bombardamenti mirati, solo pochi giorni dopo che tale possibilità era stata esplicitamente esclusa dal capo di Stato Maggiore, Martin Dempsey. La successiva retromarcia del presidente ha alimentato ancor più l’immagine di un’amministrazione approssimativa e superficiale. In Afghanistan, Obama ha inizialmente sostenuto la necessità di un’escalation dell’intervento statunitense senza però accoglierne le implicazioni operative e scontrandosi quasi apertamente con i generali che chiedevano un impegno, in termini di dispiegamento di uomini e di allungamento della missione, maggiore di quello in ultimo approvato.

La vicenda afghana ci rivela però anche la quarta e ultima spiegazione della difficile relazione tra Obama e i generali. In quell’occasione, un presidente inesperto e insediatosi da poco fu quasi sfidato dai suoi militari, che sull’Afghanistan montarono una vera e propria campagna pubblica, forti anche del credito e dell’autorevolezza maturata negli anni precedenti. Credito e autorevolezza, questi, in parte sperperati nei mesi successivi in conseguenza degli scandali e degli errori che travolsero McChrystal e Petraeus. Ma soprattutto non sufficienti per alterare un rapporto – quello tra militari e potere politico – che in una democrazia non può ovviamente essere paritetico e che, nella declinazione datane negli USA, è stato funzionale all’internazionalismo interventista che ha caratterizzato l’azione di politica estera americana nel dopo-guerra fredda.