L’ultima delle svariate raffigurazioni retoriche di cui l’Africa è stata oggetto da parte dell’Occidente è quella che la ritrae come la next big thing dell’economia globale. Dopo che il boom dei BRICs avrà fisiologicamente terminato di espandersi, arriverà finalmente – si sostiene – il momento dell’Africa. Questo mutamento si è ben riflesso ad esempio nel cambio di tono nelle copertine dell’Economist. Dal lapidario “The hopeless continent” con cui l’Africa venne etichettata in una celebre copertina del maggio 2000, si è passati ad un raggiante “Africa rising” – con tanto di aquilone a forma di Africa color arcobaleno – nel dicembre 2011. Nelle statistiche mondiali sulla crescita economica stilate dalle istituzioni finanziarie internazionali, più della metà delle economie più performanti sono africane ormai da alcuni anni. Chiunque abbia visitato una delle grandi capitali del continente – nel quale si trovano più di cinquanta città con più di un milione di abitanti – ha visto grattaceli in costruzione, grandi alberghi, centri commerciali. Eppure, il 2013 appena conclusosi ci ha raccontato anche altre storie. Quella del Mali, dove una miscela esplosiva tra l’irrisolta questione tuareg, la presenza di elementi jihadisti beneficiari del saccheggio degli arsenali libici e contrasti interni all’esercito hanno messo a repentaglio una transizione democratica che pareva consolidata. O ancora quella del Mozambico, preso ad esempio come success story per il processo di ricostruzione e sviluppo seguito alla firma degli accordi di pace di Roma del 1992, che oggi si ritrova sull’orlo della guerra civile. O infine quella del Sud Sudan, battezzato come cinquantaquattresimo Stato africano il 9 luglio 2011 e sprofondato poco più di un mese fa in una crisi politica che ha già provocato 800.000 profughi e un numero imprecisato di vittime.
Non c’è dubbio che avessimo bisogno di scrollarci di dosso una serie di stereotipi e semplificazioni sedimentati nell’immaginario collettivo, che facevano dell’Africa un continente alla deriva, irrimediabilmente escluso dalla modernità. Ben venga, quindi, un nuovo sguardo verso l’Africa, da parte dei mass media, della politica e dell’opinione pubblica. Ma è difficile considerare il passaggio repentino da uno stereotipo negativo ad uno positivo come un elemento di progresso nella nostra conoscenza dell’Africa. L’esigenza è piuttosto quella di abbandonare un’immagine statica e monolitica che poco si attaglia ad un continente di cui ci sfuggono ancora il dinamismo interno e l’intrinseco pluralismo.
Politica, conflitti ed economia
Nel 2014 ricorderemo due anniversari di segno opposto, che possono aiutarci a comprendere le tante traiettorie dell’Africa attuale. Il prossimo aprile ricorreranno infatti il ventennale delle prime elezioni libere in Sudafrica e quello dell’inizio del genocidio in Ruanda. In quel 1994, la fine dell’apartheid apparve come l’ultimo traguardo nella liberazione dell’Africa da un colonialismo antico e discriminatorio. Ma le speranze suscitate dall’epopea di Nelson Mandela vennero presto sommerse da un’ondata di conflitti che si abbatté sul continente, di cui il genocidio ruandese costituì uno degli episodi più cruenti e destabilizzanti nel lungo periodo.
Molti di quei conflitti si sarebbero estinti nella prima metà del decennio successivo, attraverso una serie di negoziati riusciti – Burundi, Sierra Leone, Liberia, Sudan, Angola solo per citarne alcuni – che fanno dell’Africa, oggi, un continente globalmente più pacifico di quanto non fosse vent’anni fa. Tuttavia, le ragioni strutturali che stanno alla radice della proliferazione dei conflitti – dagli squilibri nel processo di costruzione dello Stato alle sperequazioni nell’accesso alle risorse – non sono certo risolte in virtù della firma di accordi di pace. Questo spiega perché alcuni Paesi come la Somalia, la Repubblica Democratica del Congo o la Repubblica Centrafricana siano ancora attanagliati da guerre apparentemente irresolubili. Allo stesso modo, le resistenze verso l’avvio di mutamenti strutturali a livello politico ed economico, e la natura di lungo periodo di questi ultimi, spiegano come Paesi in cui la pace sembrava consolidata – come il Mozambico o il Mali – si siano ritrovati di nuovo immersi nella spirale della guerra civile.
Negli anni Novanta era diffusa la convinzione che il motore di questi mutamenti strutturali sarebbe stata la democratizzazione del sistema politico. In effetti, tale processo ha progressivamente esteso la sua portata, includendo oltre al fondamentale requisito di una procedura elettorale universale una serie di pratiche note come good governance. Queste ultime sono divenute un “pacchetto” indispensabile per l’accesso alle istituzioni finanziarie internazionali e ai donatori occidentali, sempre pronti del resto a concedere eccezioni in virtù dell’importanza strategica del partner di turno.
Il cammino delle riforme politiche in senso democratico ha conosciuto fortune alterne sul continente, intersecandosi con i conflitti sopra ricordati. A volte è stato proprio in occasione di elezioni controverse che si è accesa – o riaccesa, come in Angola nel 1992 o nel 2010 in Costa d’Avorio – la scintilla della guerra. In anni recenti il caso più emblematico del rischio di destabilizzazione associato alle elezioni è stato quello del Kenya, dove nel 2007 le consultazioni presidenziali e legislative scatenarono scontri di carattere tribale e regionale che rischiarono di degenerare in una vera e propria guerra civile in uno degli Stati africani più stabili della storia postcoloniale. Il caso keniano tuttavia mostra anche come il superamento di una crisi politica, per quanto grave, possa contribuire a consolidare un processo di democratizzazione nel lungo periodo. In occasione delle elezioni generali del marzo 2013 la contestazione dei risultati da parte del principale candidato sconfitto, Raila Odinga, si è mantenuta nell’ambito delle sedi istituzionali, ed è terminata una volta che queste hanno respinto i suoi ricorsi.
È molto comune, specie da parte degli osservatori esterni, considerare le elezioni come il compimento di un processo di pace. Spesso la corsa alle elezioni maschera la ricerca di una exit strategy rapida da parte di attori internazionali impazienti di districarsi da situazioni spinose. In realtà, nel breve periodo il voto popolare non segna quasi mai la nascita di un nuovo sistema politico, ma contribuisce a rilegittimare e consolidare quello esistente. Molto rare sono state le volte in cui, all’indomani di una guerra, si è aperto uno spazio in breve tempo democratico effettivamente multipartitico. I partiti di governo, come il FRELIMO in Mozambico o il MPLA in Angola, hanno generalmente dominato la scena politica anche a molti anni dalla fine del conflitto. In altri casi inoltre la pace ha dato l’opportunità a leader golpisti di legittimare ex-post il proprio potere, come avvenuto nei casi di José Eduardo dos Santos in Angola, Denis Sassou-Nguesso in Congo e Omar al-Bashir in Sudan.
Non che i movimenti ribelli, laddove sono andati al potere dopo avere vinto la guerra o negoziato la pace, abbiano dato prova di maggiore apertura. Basti pensare che i partiti attualmente al potere in Etiopia, Eritrea, Uganda e Ruanda sono tutti saliti al potere attraverso le armi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, e da allora non l’hanno abbandonato neppure temporaneamente.
La reticenza delle élites africane a perseguire autentici mutamenti in senso democratico è stata spesso giustificata invocando la necessità di un esecutivo stabile e in grado di assumere decisioni rapide. Sulla falsariga delle tigri asiatiche, molti Stati africani hanno imboccato la strada dello Stato “sviluppista”, che subordina le ragioni della democratizzazione a quelle di uno sviluppo economico pianificato e rapido. In molti casi ciò è stato favorito dalla disponibilità di massicci proventi derivanti dallo sfruttamento di risorse naturali, con tutte le incognite e le ambiguità che caratterizzano le economie basate sulla rendita. Un esempio di Stato sviluppista apparentemente di successo – seppur privo di risorse naturali – è quello del Ruanda, che sotto la guida ferrea di Paul Kagame, si è proposto come hub finanziario dell’Africa centrale. Le tensioni politiche nel Paese delle mille colline, tuttavia, sono sopite – o forse soffocate – ma non certo estinte.
Democrazia e good governance rimangono però fattori determinanti nell’attrarre gli investimenti diretti esteri. È possibile che una grande multinazionale preferisca investire in un Paese retto da un regime autoritario piuttosto che in una democrazia giovane e instabile, ma una volta consolidato è proprio uno Stato democratico a offrire il massimo grado di sicurezza per gli investimenti a medio-lungo termine. È questo ad esempio il caso del Ghana e del Senegal, e ovviamente del Sudafrica.
Il 2014 sarà un anno determinante nel comprendere l’evoluzione dei processi di democratizzazione in Africa, e la loro interazione con le dinamiche di sviluppo economico e instabilità politica. Le quattro maggiori economie del continente – Algeria, Egitto, Nigeria e Sudafrica – chiameranno infatti i propri cittadini alle urne per il rinnovo delle massime cariche dello Stato e delle rispettive legislature. Ad esse si aggiungono le elezioni presidenziali in un Paese-chiave come il Mozambico. Al di là del caso egiziano, dove le consultazioni rientrano in un progetto di restaurazione autoritario-militare, queste elezioni presentano elementi di imprevedibilità destinati ad incidere in maniera rilevante sulla traiettoria futura delle medie potenze africane.
L’Africa nel sistema globale
Molteplici elementi di novità sono andati delineandosi negli ultimi anni rispetto al rapporto dell’Africa con il sistema globale. L’Africa è oggi, come ha scritto recentemente Gianpaolo Calchi Novati, un continente nuovamente contendibile e conteso. La crescente presenza dei Paesi emergenti – non solamente i quattro maggiori BRIC, ma anche ad esempio Malesia e Turchia – in Africa è una realtà radicata che ha cambiato la collocazione del continente nella rete delle relazioni internazionali. Strumenti di pressione come gli aiuti internazionali o le sanzioni sono oramai armi spuntate in mano ad un Occidente di fronte al quale i leader africani sono pienamente consapevoli di avere un potere contrattuale di cui prima non disponevano. D’altro canto, sono sempre più frequenti le situazioni di insofferenza nei confronti di una presenza allogena – in particolare nel caso cinese – percepita come invasiva e, talvolta, lesiva nei confronti delle economie locali. Questo lascia aperto uno spazio in Africa per l’azione delle potenze occidentali.
Gli Stati Uniti hanno da tempo scelto di concepire la propria politica estera in Africa prevalentemente in termini di sicurezza, pur non essendo ancora riusciti a stabilire la sede dell’AFRICOM – il comando africano delle forse armate statunitensi – all’interno dei confini del continente. L’Europa non sembra avere – come del resto in tutti gli altri teatri geopolitici – una visione omogenea del proprio rapporto con l’Africa. Spicca come sempre l’attivismo francese, che negli ultimi tre anni ha portato ad altrettanti interventi militari rispettivamente in Costa d’Avorio, Mali e Repubblica Centrafricana. Se nella politica di Parigi sono individuabili elementi di novità, in particolare nella manifesta volontà di promuovere un ricambio generazionale a livello di élite politiche – e non, come in passato, di preservare lo status quo – è altresì vero che tale interventismo si colloca nel segno della continuità con una visione neocoloniale a cui Parigi non ha mai rinunciato.
Sul piano economico, all’interno di quella che la teoria marxista chiamava la “divisione internazionale del lavoro”, l’Africa gioca ancora il ruolo subordinato di riserva di materie prime e di serbatoio di forza lavoro a basso costo attraverso l’emigrazione. Ciò per effetto non solamente dei perduranti appetiti di governi e corporation di tutto il mondo, ma anche per la compiacenza di classi dirigenti pienamente a proprio agio nel ruolo di intermediari piuttosto che di governanti. Se si eccettuano alcune economie nordafricane e il Sudafrica, il valore aggiunto prodotto sul continente è quasi irrilevante in rapporto alla quantità di materie prime estratte ed esportate. Il settore estrattivo, caratterizzato da una bassa intensità di lavoro, assorbe una quota preponderante degli investimenti diretti esteri in Africa. La questione centrale dello sviluppo, in un continente che si avvia a raddoppiare la propria popolazione sino a raggiungere i due miliardi nel 2050, sarà proprio quella di dare un’opportunità a enormi masse di giovani in cerca di lavoro. Molti, senza dubbio, cercheranno fortuna all’estero, anche in considerazione del fatto che l’Africa sarà l’unico continente a vedere crescere la propria popolazione attiva nel corso dei prossimi decenni. Molti di più, tuttavia, resteranno in Africa andando ad ingrossare i ranghi di una gioventù urbana che coltiva aspettative di mobilità sociale ma ha poche opportunità per soddisfarle.
L’emergere di una “classe media africana” – termine però talmente ampio da inglobare tutti coloro che guadagnano dai due ai venti dollari al giorno – è opportunamente enfatizzato dai report delle organizzazioni internazionali e dalle agenzie di consulenza: è senza dubbio uno degli sviluppi più significativi del panorama socio-economico del continente. Esso è tuttavia destinato a tramutarsi nella creazione di un’enclave benestante isolata dal vasto magma dell’informalità, se non sarà accompagnato dalla crescita di un’economia produttiva che sviluppi in Africa il valore aggiunto delle ricchezze estratte dal suo sottosuolo.
In conclusione, alla luce degli elementi contrastanti messi in evidenza, la retorica dell’“Africa rising” appare poco corrispondente ad una realtà che è molto più diversificata e complessa. Del resto, come tutte le raffigurazioni retoriche, quella del “secolo dell’Africa” non è altro che l’ennesima reificazione di un continente che continua a lottare per affermare la propria soggettività in un sistema-mondo di cui è considerato un’eterna periferia.