La caduta di Kunduz nelle mani dei talebani alla fine di settembre ha improvvisamente ricalendarizzato l’Afghanistan nella priorità della comunità internazionale. Con l’urgenza delle vicende mediorientali e nordafricane, molti avevano ormai considerato il paese dell’Hindukush un capitolo in sostanza chiuso. In realtà l’attacco dei talebani, il più clamoroso dal punto di vista militare dal 2001, avveniva mentre a New York, a margine dell’Assemblea generale dell’ONU, i paesi già impegnatisi finanziariamente e militarmente ribadivano l’impegno a non abbandonare il paese; ma al contempo si guardavano bene dal riprendere in mano il capitolo militare, se non per la promessa di continuare il finanziamento all’esercito nazionale (ANA) con un sostegno in termini anche di istruttori e consiglieri. La vicenda di Kunduz muove ora le acque – specie dopo il raid che ha colpito l’ospedale di Medici Senza Frontiere – in uno scenario che si può ricondurre ai quattro protagonisti principali e alla loro visione della situazione.
Il punto di vista afgano
Il primo scenario è quello in cui è immersa la realtà afgana, segnata, oltreché da una guerra interna tutt’altro che conclusasi, da forti tensioni coi vicini (il Pakistan in particolare), da una congiuntura economica in peggioramento e, soprattutto, da una fragilità istituzionale non sanata dalle elezioni presidenziali della metà del 2014. Queste si sono concluse – dopo un lungo braccio di ferro – con la nascita di un governo bicefalo (National Unity Government): con un presidente, e un capo dell’esecutivo che incarna una sorta di premierato molto sui generis e non previsto dalla Costituzione. A sua volta, tale assetto ha permesso ad Abdullah Abdullah, il secondo più votato dopo Ashraf Ghani, di poter decidere la scelta di metà dell’esecutivo e di contare su un potere sinora concentrato solamente nelle mani del presidente. Il problema del governo bicefalo non è però solo quello di una spartizione dei poteri ma semmai quello di due visioni della realtà molto diverse che finiscono, in molti casi, per paralizzare almeno in parte l’esecutivo: dalle nomine dei singoli funzionari sino alla logica in cui si deve muovere la politica estera o il processo negoziale con la guerriglia, due elementi su cui Ghani e Abdullah hanno visoni diametralmente opposte. Il primo ha teso la mano ai pachistani e spinge per negoziare col nemico; il secondo è ferocemente anti-pachistano, non perde occasione per accusare Islamabad di doppiogiochismo, ed è molto sospettoso sul negoziato di pace (al momento in fase di stallo totale). Su un unico punto i due primi inter pares hanno avuto una posizione concorde: hanno presentato un piano programmatico per i prossimi anni (governance, economia, sociale) che, agli occhi della comunità internazionale, ha sortito l’effetto di rinsaldare la fiducia piuttosto vacillante nei confronti del nuovo esecutivo.
La comunità internazionale
Il piano è stato presentato a Kabul agli inizi di settembre, in un periodo di calma (apparente) dopo un’ondata di attentati stragisti (alcuni dei quali senza rivendicazione) avvenuti in agosto. Nella capitale afgana si sono svolti due incontri internazionali cui hanno partecipato – ospiti del governo afgano e di UNAMA (United Nations Assistance Mission in Afghanistan) – una trentina di paesi e decine di organizzazioni internazionali. Gli incontri denominati “Recca VI” (la sesta Regional Economic Cooperation Conference on Afghanistan) e “SOM” (Senior Official Meeting) hanno tracciato soprattutto un quadro economico del paese e delle sue aspettative di interconnessione nel mercato regionale e globale. Ma mentre il primo è stato un incontro eminentemente economico – “vogliamo – ha detto Ghani – rivitalizzare la Via della Seta e fare dell’Afghanistan un hub regionale per connettere l’Asia centrale a quella del Sud” – il secondo è stato più politico – anche se l’economia e i finanziamenti ne erano il focus principale – proprio perché si trattava di approvare le linee guida esposte dal governo. Quest’ultimo si è concluso con la conferma, fondamentale per il governo, che gli aiuti continueranno fino al 2030*. Il documento sottoposto alla comunità internazionale (Afghanistan’s Road to Self-Reliance: The First Mile) era soprattutto improntato a buoni propositi di riforma (dalla trasparenza alla lotta alla corruzione, dai diritti dei cittadini alla creazione di posti di lavoro), con un approccio tutto sommato pragmatico.
Su pace e sicurezza il documento restava abbastanza vago, al di là delle parole di convenienza, ma era stato partorito mentre di fatto erano iniziati i primi colloqui ufficiali di pace tra governo e guerriglia (benché poi saltati in seguito all’annuncio in luglio della morte di mullah Omar). Dal punto di vista militare il SOM non aveva mandato per toccare l’argomento. Ma – fino alla vicenda di Kunduz – il dossier militare si riteneva concluso con l’avvio della missione NATO Resolute Support (di solo addestramento e limitata nei numeri) e la presenza di alcune migliaia di soldati americani con compiti soprattutto di difesa delle basi.
I talebani
La presa di Kunduz potrebbe adesso riaprire il capitolo militare come ha chiesto a gran voce Abdullah Abdullah, anche se non ci sono state aperture in questa direzione dai paesi NATO o dagli americani stessi (che hanno però garantito sostegno aereo mentre si cerca di riconquistare la città settentrionale).
Il rilancio della guerra con un’azione eclatante sembra rispondere per i talebani a tre direttrici politico-militari. La prima vorrebbe dimostrare che, nonostante le divisioni interne seguite all’annuncio della morte di Omar (sostituito non senza difficoltà da mullah Akhtar Mansur), il movimento è ancora unito e così forte da poter attaccare una media città afgana. Il secondo è che, contrariamente al passato, l’offensiva viene questa volta da Nord (e non da Sud o Sudest) il che può dimostrare che la guerriglia intende stringere a tenaglia Kabul. Il terzo riguarda invece un messaggio probabilmente rivolto a Daesh/ISIS, in rapida ascesa nel paese (godrebbe della simpatia del 10% dei talebani) e che ha accusato la dirigenza dei turbanti neri di non essere in grado di costruire (come invece in Siria o in Iraq) aree controllate militarmente e luoghi dove si viva secondo la shari’a – un’amministrazione alternativa a “crociati” e governi corrotti.
Il Pakistan
Il quarto attore è per forza di cose il Pakistan. È difficile capire la sua strategia ma molti fattori concordano nel far pensare che Islamabad si sia convinta da almeno un anno che la strada del negoziato di pace, purché in qualche modo controllato dal Pakistan, sia la soluzione migliore. Ciò soprattutto in chiave interna, dal momento che la guerra afgana ormai destabilizza il Pakistan alimentando la forza dei talebani pachistani (Tehrek-e-Taleban Pakistan), i cugini oltre frontiera dei talebani afgani: molto più crudeli e stragisti e soprattutto nemici più di Islamabad che di Washington. L’annuncio della morte di Omar, scompaginando le carte in tavola, ha finito per far saltare il tavolo negoziale imbastito da Islamabad, che sembrerebbe avere in mullah Mansur un buon alleato di cui fidarsi e su cui far valere una certa pressione. Ma dopo l’annuncio della fine di Omar, con l’inizio di una lunga querelle interna ai talebani sul futuro del vertice del movimento, una serie di attentati stragisti ad agosto ha rimesso in discussione il futuro del negoziato. Gli ambienti più anti-pachistani di Kabul (riconducibili soprattutto ad Abdullah, ai circoli vicini a Karzai, a settori dell’intelligence e dell’esercito) hanno avuto facile gioco a dirottare anche Ghani – inizialmente favorevole a una politica della porta aperta verso Islamabad – sulla posizione meno morbide, minando decisamente il cammino negoziale, iniziato – ben prima che coi talebani – tra Kabul e Islamabad per stemperare le tensioni tra i due paesi. In questo quadro ancora molto confuso, e dove la guerra torna protagonista, le speranze di una pace vicina – o almeno di un cessate il fuoco – si allontanano.
*L’Italia, ad esempio, ha firmato negli stessi giorni un impegno di 28,6 mln di euro per il bypass di Herat.