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La vittoria di Erdoğan e le incognite del nuovo ruolo

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Le elezioni presidenziali del 10 agosto 2014 saranno ricordate come un evento cruciale della recente storia politica turca, non soltanto per la vittoria di Recep Tayyip Erdoğan, al potere dal 2003 come primo ministro.

È stata la prima volta che gli elettori turchi si sono pronunciati direttamente sulla scelta del presidente della Repubblica, che in precedenza spettava al Parlamento. Questo cambiamento istituzionale rientra nei piani di Erdoğan e del suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) per trasformare in senso presidenziale il sistema politico del paese. Un piano che è stato realizzato solo in parte, in quanto la riforma costituzionale che avrebbe dovuto ampliare i poteri del presidente della Repubblica (oggi prevalentemente cerimoniali) è ancora arenata in Parlamento. La Turchia avrà quindi un presidente eletto, ma dai poteri dimezzati? Secondo la carta sì, ma Erdoğan sembra avere intenzione di essere un presidente con un ruolo politico ben più rilevante che nel passato, indipendentemente dai dettati costituzionali, sulla base del mandato del voto popolare.

Un altro fattore di novità è stato l’assetto quasi bipolare delle forze in campo. Ad Erdoğan, candidato dell’AKP, si è contrapposto infatti Ekmeleddin İhsanoğlu come candidato comune delle due principali forze di opposizione: i kemalisti del Partito Popolare Repubblicano (CHP) e gli ultranazionalisti del Movimento di Azione Nazionalista (MHP). Dato che anche i partiti minori non rappresentati in parlamento hanno rinunciato ad esprimere un candidato, Selahattin Demirtaş, rappresentante del partito curdo HDP (ma appoggiato anche da alcune sigle della sinistra “radicale”), era l’unico altro contendente.

Sotto il profilo ideologico, la scelta di un candidato comune da parte di CHP e MHP è stata estremamente innovativa anche per il nome su cui è caduta la scelta. İhsanoğlu è infatti un noto intellettuale di matrice islamica, che dal 2005 al 2014 ha ricoperto (su proposta proprio di Erdoğan) il ruolo di segretario generale dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica. Una scelta sorprendente, in particolare per i kemalisti del CHP che fanno della laicità un bastione ideologico fondamentale. La strategia in questo caso ha prevalso, anche al costo di una fronda nel partito, che ha tentato dunque di proporre una propria candidata per la presidenza.

La campagna elettorale è stata intensa, ma sicuramente meno accesa rispetto a quella delle amministrative del marzo scorso, in cui l’opposizione mirava chiaramente a detronizzare Erdoğan. In questo caso, la vittoria del primo ministro era data per scontata da tutti, e prevista dai principali istituti di sondaggio con scarti a due cifre. Erdoğan ha proposto una campagna itinerante basata su imponenti raduni di folla, presentando l’ascesa alla presidenza come una continuazione della propria attività di primo ministro, nella prospettiva di un’ulteriore crescita economica e internazionale della Turchia in vista del centenario della repubblica, previsto per il 2023. Il leader dell’AKP ha inoltre evocato la questione palestinese, con duri attacchi ad Israele, e violenti rimproveri agli altri candidati (nonché all’ormai dichiarato “nemico”, il predicatore Fethullah Gülen), ritenuti troppo tiepidi sulla questione. İhsanoğlu, che invece difendeva il ruolo non politico della presidenza, ha scelto una campagna dai toni più moderati, cercando prevalentemente di mettere in evidenza le sue credenziali laiche e kemaliste di fronte agli elettori del CHP. Demirtaş ha rappresentato il lato più innovativo della campagna, proponendo temi e punti di vista marcatamente “di sinistra”, in termini di diritti civili e sociali.

Un altro aspetto significativo della campagna sono state le accuse ad Erdoğan (anche da parte dell’OSCE) di avere monopolizzato e condizionato i media e di avere utilizzato impegni e risorse istituzionali per promuovere la propria candidatura: fino alle dimissioni, alla vigilia del voto, del direttore di Hurriyet, la principale testata di opposizione, in risposta alle critiche e alle presunte pressioni del primo ministro sul suo gruppo editoriale.

I risultati, come detto, hanno dato ragione a Erdoğan, che si è imposto con il 51,65% dei voti, evitando il ballottaggio previsto per il 24 agosto e confermando la propria popolarità nel paese a dispetto di scandali e controversie. Un successo per Il primo ministro e per l’AKP – che non avevano mai ottenuto la maggioranza assoluta dei voti in un’elezione – benché leggermente inferiore rispetto ai sondaggi, che sembravano suggerire un risultato tra il 53 e il 57%. İhsanoğlu, con il 38,56%, mostra per parte sua la fattibilità dell’alleanza tra CHP e MHP, ma fatica a sfondare oltre la base degli elettorati dei due partiti (una parte dei quali, anzi, potrebbe avere disertato il voto, come suggerito anche dall’affluenza del 74%, 13 punti meno delle ultime politiche); mentre Demirtaş (9,78%), coglie un buon risultato, ma senza raggiungere le due cifre percentuali che i suoi sostenitori auspicavano.

La vittoria di Erdoğan significa innanzitutto continuità per la Turchia, rispetto al recente passato: anche, probabilmente, in termini di polarizzazione e controversie, in riferimento ad alcune politiche proposte dal governo negli ultimi anni, che molti nell’opposizione e nei media ritengono limitative dei diritti civili e delle libertà politiche. Una tendenza che potrebbe essere anzi acuita dalle intenzioni del neo-presidente di dare alla sua carica risvolti politici non previsti dalla Costituzione. Per Erdoğan inizia quindi un periodo delicato, che metterà alla prova anche la sua capacità di controllare il governo e il proprio partito dalla presidenza. Molto dipenderà dall’efficacia delle scelte che saranno fatte nelle prossime settimane per i vertici dell’AKP, ma soprattutto per la poltrona di primo ministro: mentre fino all’inizio della campagna molti davano per probabile una soluzione “russa”, con il passaggio alla premiership dell’attuale presidente Abdullah Gül, negli ultimi giorni sono salite le quotazioni dell’attuale ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu – ritenuto più fedele di Gül rispetto alla linea di Erdoğan, ma che secondo alcuni potrebbe non avere le doti carismatiche necessarie per il ruolo – o una figura di secondo piano sotto il diretto controllo del presidente. È in ogni caso possibile che, con il passaggio di Erdoğan alla presidenza, emergano divisioni e sfide all’interno del suo partito (e più in generale del campo conservatore) che erano state finora sopite dalla sua leadership: in particolare tra i parlamentari “storici” dell’AKP (fra cui alcuni dei principali critici di Erdoğan) che non possono essere ricandidati per un quarto mandato in base agli statuti del partito. L’opposizione dovrà invece scegliere se proseguire sulla strada di un’alleanza che potrebbe essere l’unica strada per battere l’AKP alle prossime parlamentari (previste per il 2015, ma che Erdoğan potrebbe decidere di anticipare a fine 2014), ma che pone dei problemi per le basi dei partiti (in particolare in mancanza di un progetto politico effettivo). Resta soprattutto da capire se Erdoğan – pur nelle sue intenzioni di continuare a svolgere un ruolo “politico” – acconsentirà a svolgere dalla sua nuova carica un ruolo super partes, come auspicato dalle istituzioni dell’UE contestualmente alle congratulazioni per la vittoria. Le sue prime parole dopo il voto, che hanno fatto riferimento alla riconciliazione sociale e alla tolleranza delle differenze, potrebbero suggerire di sì, ma l’esperienza degli ultimi anni induce ad un più cauto realismo.