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La Turchia alle corde sul problema siriano

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Nelle scorse settimane, il governo turco si è distinto come il principale sostenitore, insieme a quello francese e quello americano, della necessità di un intervento armato in Siria dopo i presunti attacchi con le armi chimiche del 21 agosto. Recep Tayyip Erdoğan è stato categorico, asserendo che il suo paese avrebbe sostenuto “qualsiasi coalizione” avesse intrapreso un’azione militare contro Damasco, sotto l’egida dell’ONU oppure no. Anche dopo l’apertura di Bashar Assad sulla possibilità di cedere l’arsenale chimico siriano alla Russia, il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu (se possibile ancora più assertivo del primo ministro sulla questione) ha commentato che in ogni caso l’attacco chimico contro i civili non può restare impunito: una posizione ribadita anche dopo l’accordo tra John Kerry e Sergey Lavrov, quando il ministro degli Esteri – pur accogliendo positivamente lo sviluppo – ha sottolineato l’importanza di fermare anche i massacri perpetrati con armi convenzionali e ha avvertito sul rischio che il regime usi l’accordo solo per guadagnare tempo. Questo orientamento, pur se presentato come il desiderio “di fermare una guerra, non di avviarne una”, appare dissonante rispetto al mantra “zero problemi con i vicini”, che caratterizza la visione geopolitica del ministro degli Esteri, ma risulta più comprensibile in considerazione della storia dei rapporti tra i due paesi, e delle crescenti difficoltà che deve affrontare la strategia turca nel Mediterraneo.

Innanzitutto, i rapporti positivi tra Siria e Turchia negli anni 2000 sono stati solo una parentesi in una storia di difficoltà, con un’irrisolta spartizione territoriale e di risorse idriche (aggravata dalla costruzione di un monumentale sistema di dighe da parte di Ankara). Anche come conseguenza di questa controversia, la Siria aveva a lungo sostenuto il PKK, ospitando fino al 1998 il suo leader Abdullah Öcalan.

A dividere Assad da Erdoğan sono anche l’intransigente laicità del regime siriano (con la repressione sistematica di movimenti islamisti come quello dei Fratelli musulmani); e l’appartenenza di Assad alla minoranza alauita, vicina parente di quegli aleviti (fra i quali  anche il leader dell’opposizione turca Kemal Kılıçdaroğlu) che sono noti in Turchia per un sostegno prevalente alle forze laiche.

Questo non aveva tuttavia impedito che – proprio all’insegna della politica di “zero problemi con i vicini” – l’attuale governo turco mantenesse con Damasco buone relazioni per tutto lo scorso decennio, presentando questo rinnovato idillio come un esempio del nuovo corso impresso alla politica estera. Una situazione che è cambiata solo con l’ondata di rivolte della Primavera araba, quando il governo di Ankara – dopo notevoli esitazioni – ha deciso di farsi paladino delle ragioni dei dimostranti nelle piazze arabe.

Con lo scoppiare della guerra civile in Siria si sono poi aggiunte altre ricadute negative per la Turchia, con l’afflusso di centinaia di migliaia di rifugiati che ha portato la situazione nelle province di confine al limite dell’insostenibilità. Questo anche per i rischi a livello di sicurezza, in termini di contrabbando di armi e terrorismo: un problema divenuto chiaro con gli attentati (con decine di vittime) che hanno avuto luogo nel maggio scorso nella città di confine di Reyhanli.

L’involuzione dei rapporti tra i due paesi è tuttavia stata graduale, e non ha comportato un’immediata ostilità verso il regime di Assad da parte del governo di Ankara. Erdoğan, almeno inizialmente, si era limitato a denunciare le violazioni dei diritti umani e l’emergenza umanitaria in atto, e aveva tentato di assumere un ruolo di mediazione per convincere il presidente siriano a varare riforme liberali. La sua posizione critica si è tuttavia accentuata con il passare dei mesi e l’aggravarsi dell’emergenza umanitaria, subendo un’accelerazione nel giugno 2012, quando le forze armate siriane hanno abbattuto un velivolo militare turco. La Turchia è così arrivata a sostenere apertamente la guerriglia, ospitando sul proprio territorio le basi e il supporto logistico per la Free Syrian Army che lotta contro Assad; mentre il parlamento di Ankara ha concesso al proprio esercito la facoltà di svolgere operazioni oltreconfine, in caso fosse necessario.

Si è così arrivati  oggi al deciso sostegno di Erdoğan per un’azione militare internazionale contro il regime. Tuttavia, proprio per la prossimità del paese alla Siria, e anche per l’opposizione di curdi e aleviti, una parte consistente dell’opinione pubblica turca è riluttante a seguire il suo primo ministro sulla via della guerra. Questo soprattutto nelle province di confine, dove più si temono gli effetti di un’eventuale rappresaglia di Damasco (anche con armi chimiche) e un allargamento del conflitto: anche nel caso la Turchia decidesse di non partecipare direttamente alla guerra, ma concedesse l’uso per l’attacco delle proprie cruciali basi di confine, come Incirlik. La perplessità della pubblica opinione viene oggi sfruttata anche dal già ricordato leader (alevita) dell’opposizione Kılıçdaroğlu, che ha duramente attaccato il governo per il suo avventurismo, accusandolo – in modo volutamente paradossale – di voler partecipare ad una “crociata” contro un altro paese musulmano. Anche il partito curdo BDP si è espresso in modo sfavorevole alla partecipazione turca ad un eventuale intervento armato contro il regime di Assad, che fra l’altro dopo l’inizio della guerra civile ha consentito ai curdi siriani una maggiore autonomia in cambio della loro neutralità.

Queste contrarietà non sembrano tuttavia scalfire la durezza della posizione di Erdoğan, che reagisce così al suo crescente isolamento sia sul piano interno – dove pur mantenendo una forte base di consenso deve affrontare critiche anche da forze a lui un tempo vicine – sia su quello internazionale. Mentre infatti la repressione delle proteste dei mesi scorsi ha fortemente danneggiato l’immagine della Turchia nel mondo occidentale – dal quale la divide anche la posizione critica assunta sul golpe in Egitto – in Medio Oriente oggi Ankara deve paradossalmente affrontare una situazione di “molti problemi con i vicini”: ai già difficili rapporti con Israele si sono infatti aggiunte le tensioni con l’Iran (ma anche con la Russia) proprio sul problema siriano, mentre il golpe militare del Cairo ha vanificato i progetti di Erdoğan per un asse turco-egiziano. Puntare tutto sullo scacchiere siriano sembra così l’ultima, pericolosa strada tentata dal governo turco per risollevare una politica estera ed un’immagine pubblica che, negli ultimi anni, hanno subito una netta involuzione.