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La strana parabola dello shale gas e shale oil nordamericano

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Dire che il 2015 è stato un anno difficile per il settore del petrolio e in particolare per lo “shale oil”, quello estratto dalle sabbie bituminose, è un eufemismo. Per gli Stati Uniti, la rivoluzione promessa, e in buona parte realizzata negli ultimi tredici anni, era di rendere il paese indipendente a livello energetico grazie proprio al petrolio di scisto. Il problema è che ora questa trasformazione si sta capovolgendo a sfavore di alcune imprese e dei loro lavoratori americani.

Il tasso di chiusure delle società che si affidano alla tecnica del fracking infatti è cresciuto drammaticamente; solo negli ultimi sei mesi del 2015 ha portato alla bancarotta o all’amministrazione controllata un terzo degli operatori americani. Le conseguenze più immediate riguardano i lavoratori e le società che restano a fronteggiare la tempesta. Una tempesta perfetta, si è detto, dovuta soprattutto alla caduta dei prezzi del petrolio, ai minimi storici da sedici anni, alla sua sovrapproduzione e alla scarsa domanda delle economie dei BRICS.

Tutto ha avuto inizio nel 2014. Dopo anni di rialzi incontrollati, il petrolio ha cominciato in quell’anno la sua folle corsa al ribasso. Nel 2015, l’aumento dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve e il conseguente rialzo del dollaro – sostengono alcuni osservatori – gli hanno dato il colpo di grazia. In questi 18 mesi, l’impatto su Big Oil (le società di estrazione tradizionale) e aziende di fracking è stato notevole. I mercati energetici mondiali stanno ancora subendo scossoni, con perdite sulle piazze d’affari, anche a fronte della scelta dell’Arabia Saudita di mantenere la propria produzione di barili di greggio inalterata, si dice per mandare in rovina i rivali, e dell’accordo nucleare che ha rimosso molte delle sanzioni contro l’Iran. Si stima che, a livello mondiale, l’incidenza del calo dei prezzi sulle economie (esclusi gli Usa) sia di 380 miliardi di dollari in progetti petroliferi – sia shale che Big Oil – rimandati o cancellati.

Il contraccolpo negli Stati Uniti è relativamente più pesante, anche perché il fracking ha vissuto un vero boom: a partire dal 2003, 200 miliardi sono stati spesi in equipaggiamenti e attività di estrazione. Investimenti che sono quadruplicati  in soli dieci anni, da 40 miliardi nel 2003 a 160 miliardi di dollari nel 2013. Il picco è stato raggiunto nel 2014, quando è scoppiata la tempesta perfetta.

L’estrazione di shale oil e shale gas ha avuto minore capacità di assorbire il colpo, perché è un settore giovane e con capitali più esposti. In media, ogni operatore ha investito tra i 6 e i 10 milioni di dollari per l’acquisto di macchinari, più cari delle classiche trivelle per l’estrazione di petrolio. E, anche se nel 2014 i costi della fratturazione sono diminuiti, anche grazie a un nuovo sistema che permette più estrazioni contemporanee, ormai i debiti avevano strozzato il settore. Di conseguenza le linee di credito si sono raffreddate: meno prestiti, per una perdita di liquidità di 10 miliardi di dollari, senza i quali le società non ripagheranno le obbligazioni (sono già andati in fumo titoli per 16 miliardi).

Ma la filiera del fracking è lunga e le ricadute ancora imprevedibili: gli investitori hanno perso interesse dopo aver scommesso in quattro anni 48 miliardi sullo shale (sia petrolio che gas). Le risorse che restano servono ora a favorire fusioni e acquisizioni a prezzi stracciati. Persino un colosso come la EOG Resources – definita la Apple del fracking – ha iniziato a disinvestire dal petrolio e dal gas di scisto, in attesa che il prezzo del petrolio si rianimi. E se fino al 2014 queste società  hanno goduto del sistema “hedging” – la vendita anticipata del petrolio ad un prezzo più vantaggioso rispetto a quello corrente – quella fase è ormai chiusa, giacché non rientrano più nelle soglie di redditività.

Ma non di sole aziende è fatta la filiera: autotrasportatori freelance; società locali di gestione delle acque (al fracking ne servono ingenti quantità); costruttori di pompe a pressione; manovali da cantiere: rischiano tutti molto. Per i lavoratori l’effetto domino è già iniziato: la Samson Resources, comprata nel 2011 dal fondo KKR per una cifra mai pagata per una società del settore (7 miliardi di dollari), ha dichiarato bancarotta nell’autunno 2015, lasciando i suoi 7.000 lavoratori a spasso, mentre il fondo KKR vedrà bruciati 4 miliardi di ricapitalizzazione.

Negli Stati Uniti, gli analisti e gli istituti di credito diffondono previsioni funeree e paventano, forse esagerando, una crisi in stile “subprime”. Immaginano che i prezzi non torneranno agli ideali 70-80 dollari al barile prima del 2020 e invitano gli investitori “a vendere tutto”. La preoccupazione deriva anche dall’andamento dei mercati: i 31 maggiori istituti finanziari americani, i cui titoli sono attualmente in perdita, stanno accantonando milioni per far fronte alla débâcle: solo Wells Fargo ha in pancia 17 miliardi di dollari di prestiti a Big Oil e shale.

Per parte sua, l’International Energy Agency prevede mezzo milione di barili in meno prodotti nel 2016, con la conseguente chiusura di altre 30-40 società di fracking. Mentre il Center for Strategic and International Studies ipotizza che quei 500 mila barili potranno intanto essere recuperati con la produzione iraniana. In questo scenario, tuttavia, il prezzo scenderebbe ancora,  fino a 20 dollari.

Un rapporto del Bauer College of Business di Houston, in Texas, il centro nevralgico petrolio e del gas di scisto, così come le analisi di Citigroup, Goldman Sachs e MorganStanley, sostengono che se il prezzo del barile non torna a 50 dollari entro il 2017, i “frackers” perderanno il restante 70% del loro capitale. Secondo lo studio texano, inoltre, la perdita di 100 mila posti di lavoro solo in Texas costringerà il “Lone Star State” a rivedere il proprio budget, e a livello nazionale la perdita sarà almeno di pari misura.

Eppure, nonostante il continuo declinare dei prezzi e il licenziamento di molti ex colletti blu dell’Oklahoma e del North Dakota re-impiegatisi nel fracking, la produzione del petrolio di scisto resta sopra i 9 milioni di barili al giorno: il doppio rispetto al 2008. E questo induce gli osservatori – soprattutto europei – a pensare che la bolla  non si sgonfierà facilmente ma che, anzi, supererà anche questa burrasca. Per almeno due ragioni: la convenienza dello shale per gli esportatori americani, gli unici che ci stanno comunque guadagnando, e la competitività dal punto di vista geopolitico. Mantenere alta la produzione è innanzitutto un antidoto alla guerra dei prezzi dei sauditi. In secondo luogo, la tempesta perfetta potrebbe spingere il settore a riorganizzarsi: facendo capitolare i piccoli produttori indebitati, ma favorendo anche la creazione di un’industria più forte e concentrata in aree più produttive.

In questa tormenta, comunque portatrice anche di opportunità, si inserisce inoltre la decisione del presidente americano Barack Obama, a fine 2015, di usare il veto presidenziale per mettere fine (dopo 7 anni) al progetto di costruzione dell’oleodotto Keystone XL, che dall’Alberta, in Canada, avrebbe portato il greggio di scisto fino al Golfo del Messico. Un’operazione, ha dichiarato Obama, che penalizza gli Stati Uniti nella battaglia sul climate change e che non avrebbe migliorato l’economia del paese né creato posti di lavoro.

Una parte dell’industria del fracking, proprio per questo, sta concentrando gli sforzi di estrazione in aree più circoscritte, abbattendo i costi di auto-trasportoche, con l’abbandono del progetto Keystone, sono schizzati in alto soprattutto in North Dakota. Nel frattempo, però, la TransCanada, società che doveva realizzare l’oleodotto, ha impugnato il veto di Obama e ha avviato due cause separate: una per violazione dell’accordo nordamericano sul libero commercio (NAFTA) e l’altra sulla costituzionalità dell’autorità che ha bocciato il progetto. La beffa è che TransCanada, secondo molti analisti politici, potrebbe vincere, incassando i 15 miliardi di dollari di indennizzo.