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La strana ascesa della BCE nella politica europea: un’anomalia necessaria

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Non è ancora chiaro se questo sarà per l’Europa l’anno della sospirata ripresa – benché lo stesso termine “ripresa” sia probabilmente inadatto per descrivere uno scenario tanto mutato dall’inizio della crisi. Tra i cambiamenti nel panorama frastagliato e incerto dell’Unione Europea ve n’è a questo proposito uno di importanza maggiore: l’emergere della Banca Centrale Europea (BCE) come attore fondamentale – anche dal punto di vista politico – dell’economia continentale.

L’Unione Europea è stata definita la creazione di ingegneria politica più insolita e atipica del dopoguerra. E, in effetti, non molte strutture di governo possono “vantare” non solo un’evoluzione così rapida, ma anche un tale saliscendi istituzionale a livello di complessità, attribuzioni e influenza dei propri vari organi. La BCE, nata nel 1999 con il compito di vegliare con discrezione sulla buona salute dell’euro e con il mandato – mutuato dall’esperienza monetaria della Bundesbank tedesca – di occuparsi della stabilità dei prezzi e dei bilanci prima ancora che della crescita economica, è uno degli esempi di queste alterazioni informali di competenze.

Nessuno, qualche tempo fa, avrebbe scommesso che da Francoforte (e non da Berlino, o da Bruxelles, o da altrove) sarebbe stata lanciata l’operazione più massiccia e impegnativa del sistema economico europeo – che porta il nome tecnico di quantitative easing (mutuato dall’esperienza americana) ma il ben più eloquente soprannome di bazooka. Ma, oltre che dalla persistenza della crisi, ciò è stato reso possibile proprio dai difetti costitutivi dell’Unione Europea: in particolare nella mancanza di un governo economico comune e in generale nell’assenza di un’arena democratica che controlli il processo decisionale.

Una mancanza che il Presidente Mario Draghi, in carica dal novembre del 2011, ha mostrato immediatamente di voler riempire con un inedito e ininterrotto interventismo. Utile ricordare lo scenario finanziario di allora: le borse dei Paesi europei più indebitati sotto il pauroso attacco in chiave anti-euro degli operatori internazionali, la sopravvivenza della moneta unica pericolante, l’uscita di alcuni Stati dall’UE probabile. “Chi mai impedirà alla Grecia di fallire, si diceva, se il suo Stato resta senza soldi?” – questa considerazione, alla base della crisi degli spread, si appoggiava sulla proibizione, per la Banca Centrale Europea, di agire come prestatrice di ultima istanza dei membri dell’UE: non poteva cioè, per statuto, farsi garante dei debiti di quei Paesi, comprando i loro titoli.

Unica soluzione da Bruxelles: tre anni di tagli e inasprimenti fiscali per rendere i bilanci “sostenibili”, che furono subito bruciati dall’aumento degli interessi sul debito, in un assurdo e potenzialmente infinito circolo vizioso a cui nessuno offriva alternative. La crisi – o almeno quella sua fase acuta – si risolse solo nel luglio 2012 con la dichiarazione di Draghi: “The BCE is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And, believe me, it will be enough”. Intento reiterato poi più esplicitamente due anni dopo, col risultato di far tornare i rendimenti dei titoli ai livelli tranquilli del 2005. La BCE stava infrangendo i trattati, garantendo quell'”ultima istanza” che le era vietata? Non esattamente: l’istituto di Francoforte non si impegnava ad acquisti diretti di titoli, come non gli era consentito, ma semplicemente ad acquisti sul mercato secondario (cioè quasi a dire di seconda mano) però con lo stesso effetto.

La stessa strategia è stata alla base del quantitative easing (QE), ossia l’acquisto in quantità massicce non solo dei titoli del debito pubblico, ma in una proporzione del 20% anche di quello privato (soprattutto di piccole e medie imprese). La BCE ha così forzato la competenza appena acquisita, quella di poter comprare indirettamente titoli di Stato al solo scopo di risolvere la crisi degli spread, trasformandola in un’immissione eccezionale di liquidità nelle casse pubbliche e private. Almeno 1.000 miliardi (da qui il soprannome di bazooka) con l’obiettivo di stoppare la deflazione per favorire lo smaltimento del debito, indebolire ulteriormente l’euro per favorire le esportazioni e stimolare tutta l’attività economica. Insomma un elettroshock – almeno nelle intenzioni – a tutto il mercato europeo; un vero tradimento, in effetti, del mandato originario – che, alla tedesca, limitava rigorosamente le prerogative della Banca Centrale Europea.

Lo sviluppo di un centro decisionale alternativo alla Commissione, al Consiglio e all’Eurogruppo, egemonizzati negli ultimi anni da Berlino, è stato possibile sia per le colpe della leadership tedesca – lenta nell’assunzione delle decisioni, goffa nella costruzione del consenso, bloccata dai labirinti della politica di Bruxelles – sia nonostante l’opposizione della Germania. L’accordo tra Draghi, Angela Merkel e il Presidente della Bundesbank Jens Wiedmann si è rotto la scorsa estate, quando è stato chiaro che l’ammontare del QE sarebbe stato praticamente illimitato.

Per la Germania, si tratta di un rischioso regalo a quei Paesi che non hanno ancora portato a termine il programma di austerità. Ma non c’è solo il “favore” alla Grecia e agli altri Stati con tanto debito e riforme pendenti (come la Francia e l’Italia) a disturbare Berlino. L’effetto del bazooka di Draghi sul cambio dell’euro, ormai vicino alla parità con il dollaro, avvantaggia i Paesi esportatori concorrenti della Germania (ancora la Francia e l’Italia, ma non solo): questi, grazie alla discesa dei prezzi all’estero, possono recuperare un po’ del gap competitivo con il sistema produttivo tedesco.

Non è strano che la decisione sul QE sia stata preceduta da varie operazioni di affiancamento: un lavorio mediatico continuo volto ad ammorbidire il mondo imprenditoriale tedesco; una fuga di notizie calcolata al millimetro per generare nei mercati un’aspettativa capace di influenzare positivamente il voto dei banchieri centrali nel consiglio direttivo della BCE; ma anche armi non convenzionali come la diffusione delle minute delle riunioni – per smascherare i “cattivi”. L’opposizione è stata infine ridotta a cinque su diciannove Paesi, tra cui naturalmente la Germania, e ha preferito non “contarsi” con una messa ai voti.

Per quanto ci siano diverse perplessità sull’efficacia dell’operazione, non c’è dubbio che i mercati la vedano con ottimismo: le borse di Francoforte, Milano e Parigi sono cresciute intorno al 20% dall’inizio dell’anno. Dalla Francia arrivano gli apprezzamenti più sonori, a cominciare da quelli del Presidente François Hollande che ha lodato “le decisioni audaci, coraggiose e responsabili della BCE”; Parigi, la cui presa sulle istituzioni europee è in netto declino, non poteva sperare in una sponda migliore per tentare di riequilibrare l’influenza tedesca.

È dunque evidente la portata politica, oltre quella economica, delle manovre di Mario Draghi – che si è perciò guadagnato dalla stampa anglosassone il titolo di most powerful man in Europe. E in un certo modo spiega, tra l’altro, la ritrosia di governi come quello francese o italiano a unirsi in modo esplicito al fronte nettamente anti-austerità della Grecia di Tsipras e Varoufakis: si ritiene sufficiente l’opera prestata dalla BCE – come una sorta di “grazia ricevuta”, perché nessun organo democraticamente eletto l’ha mai ratificata né tantomeno ispirata.

Ma è impossibile sostenere, nel medio-lungo periodo, la piena legittimità dell’assunzione di competenze compiuta dalla Banca Centrale; c’è da risolvere la mancanza – ed è una considerazione condivisa dagli stessi banchieri di Francoforte – di quella struttura di governo comune a cui quelle competenze spetterebbero. A questo proposito, anche la recente decisione (4 febbraio) di tagliare i rubinetti del credito alle banche greche può essere interpretata, più che come un “colpo di Stato finanziario” com’è stata definita, piuttosto come una chiamata in causa della politica europea: a questa, e non alla BCE, il compito di risolvere i problemi dell’economia continentale.