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La stabilità dell’Egitto passa anche (e molto) dall’economia

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A pochi giorni dalle attese elezioni presidenziali che dovrebbero consacrare la netta vittoria dell’ex Feldmaresciallo Abdel Fattah al-Sisi, l’Egitto non sembra essere ancora destinato nel breve periodo a conoscere quiete e stabilità. Oltre alle tensioni di carattere politico e alle recrudescenze terroristiche (non solo) nel Sinai, a preoccupare governo e autorità cairote é soprattutto lo stato di salute dell’economia: questa rimane in effetti, da oltre tre anni, la principale emergenza nazionale.

Terza economia del mondo arabo in valore assoluto dopo Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, fino alle rivolte del 2011 il Cairo ha conosciuto un certo grado di sviluppo, incoraggiato dalle riforme in senso liberista introdotte dal 2004 dall’allora presidente Hosni Mubarak: le riforme avevano favorito una crescita della domanda interna e una grande capacità di attrazione degli investimenti diretti esteri. Una crescita generalizzata tale da far ipotizzare a Jim O’Neill, presidente della Goldman Sachs (e noto per aver coniato nel 2001 il celeberrimo acronimo BRIC – Brasile, Russia, India, Cina), che l’Egitto sarebbe stato una delle undici economie leader del XXI secolo.

Tuttavia le rivolte del 2011 e la seguente crisi istituzionale si sono legate immediatamente a doppio filo con una congiuntura economica sfavorevole, che a lungo ha minacciato di provocare un possibile default finanziario per il paese nordafricano. Oggi l’Egitto si trova ad affrontare emergenze inderogabili alle quali fino ad ora ha potuto sopperire solo in virtù dei lauti aiuti economici delle petro-monarchie del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Kuwait). All’indomani del golpe militare del luglio 2013 che ha portato alla caduta di Mohamed Morsi, il sostegno di quei governi ha impedito il fallimento sistemico del paese, depositando nelle esanimi casse della Banca centrale egiziana 12 miliardi di dollari; nel gennaio 2014 hanno aggiunto una nuova tranche di aiuti da 8 miliardi. Importanti risorse che sono servite a ristrutturare il debito e a sopperire alla temporanea fuga di capitali stranieri.

Nonostante il salvataggio in extremis e a fronte di una moderata crescita (secondo le previsioni del FMI nel primo trimestre del 2014 il PIL è cresciuto del 2,3%, +0,2% rispetto all’anno precedente), l’economia egiziana continua a navigare a vista, anche a causa del peggioramento generale dei vari indicatori socio-economici: le riserve di capitali esteri sono meno della metà di quelle del gennaio 2011 (stimate ad oggi dal ministero delle Finanze intorno ai 17,4 miliardi di dollari). In tal senso, una nuova diminuzione di valuta cash potrebbe rendere lo Stato insolvente e incapace di pagare i sussidi (tuttora molto consistenti) su cibo e carburanti. A rendere più pesante la situazione economica incide anche il previsto aumento del deficit di bilancio che nel biennio 2012-13 ha raggiunto il 14% e che dovrebbe comportare un nuovo incremento del debito pubblico, attestandosi nel primo trimestre 2014 a 268 miliardi di dollari (ossia il 107% del PIL). L’inflazione, passata dal 13% di luglio 2013 all’attuale 11%, è in discesa solo grazie ad un forte apprezzamento della sterlina egiziana compiuto dall’esecutivo Al-Beblawi attraverso politiche di controllo valutario. Anche le entrate derivanti dal turismo – che contribuisce al PIL per l’11% ed è tra le principali fonti di reddito nazionali, con le rimesse degli egiziani all’estero e gli introiti provenienti dallo sfruttamento del Canale di Suez – sono passate dai 12,5 miliardi del 2010 ai 5,8 miliardi del 2013. Il forte calo è stato in parte dovuto al pericolo del terrorismo nel Sinai. La disoccupazione rimane ancora un grande problema: i dati ufficiali dicono che nei primi mesi del 2014 essa è rimasta stabile al 13,4%, così come quella giovanile rimasta al 25%. Infine, il tasso di povertà della popolazione è in aumento: il 45% degli egiziani vive con meno di due dollari al giorno (+5% rispetto al 2012).

Questa perdurante debolezza economica è stata esasperata da un lato da politiche economiche rivelatesi inconcludenti, dall’altro da un generale clima di incertezza e volatilità alimentato dalla crescente polarizzazione politica e dalle continue proteste e violenze di piazza. Una situazione tale che nel breve e medio periodo lascia intravvedere un rinnovato rischio default, se non si inverte la tendenza negativa con strategie macroeconomiche e riforme atte a creare sviluppo. Le priorità nell’agenda del nuovo governo dovranno rimanere la modernizzazione e la liberalizzazione del sistema economico, una maggiore trasparenza nella gestione della spesa pubblica, una decisa lotta alla corruzione e agli sprechi della burocrazia, nonché un taglio alla spesa in sussidi che, allo stato attuale, continua a pesare sul 30% del budget statale. Ancora più controversi, soprattutto per un presidente in pectore come Al-Sisi, saranno altre misure riformatrici di cui si discute da tempo: una diminuzione del peso dei militari nell’economia (un sistema che secondo stime ufficiose della Corte dei Conti egiziana dovrebbe contare un terzo del PIL nazionale, pari a circa 1.000 miliardi di dollari), e una magistratura libera e indipendente dal potere politico. Nel complesso, si tratta in effetti di interventi di riforma che in più occasioni lo stesso Fondo monetario internazionale (FMI) aveva sottolineato come condizioni necessarie per accedere al prestito – poi ritirato a causa del rifiuto di Morsi di tagliare i sussidi all’energia e al cibo – da 4,8 miliardi di dollari (prestito trattato dall’allora premier islamista Hisham Qandil con l’istituto di Washington nella seconda metà del 2012).

Ecco dunque che, sullo sfondo della duplice difficoltà politica ed economica, il nuovo governo potrebbe trovare conveniente il rilancio di nuove trattative con il FMI. Conferme verso questa ipotesi giungono sia dal ministro delle Finanze egiziano Hany Dimian (che ha confermato la volontà di riprendere i contatti con l’istituto finanziario dopo le presidenziali del 26-27 maggio), sia dalla stessa Christine Lagarde, che ha più volte esortato il prossimo esecutivo a intraprendere importanti riforme e a riprendere le trattative interrotte per un prestito internazionale. Un impulso alla ripresa di trattative dirette potrebbe arrivare dalla volontà e necessità dell’Egitto e degli attuali sponsor economico-politici del Golfo a rivedere l’attuale rapporto di dipendenza/assistenza. Un’ipotesi che, qualora diventasse realtà, potrebbe tranquillizzare gli investitori esteri e far riprendere i flussi finanziari verso il paese, avendo importanti implicazioni anche sul piano politico. Infatti, l’Egitto potrebbe trovare conveniente ridurre la dipendenza dagli aiuti del Golfo al fine di perseguire e di elaborare una propria politica economia e, al contempo, di evitare pesanti interferenze straniere nei suoi affari interni. La messa al bando della Fratellanza musulmana nel paese nordafricano spinge già probabilmente in questa direzione.    

Sebbene i costi delle rivolte e della transizione siano ancora elevati, le priorità per il nuovo establishment sono ancora quelle ben note del periodo pre-transizione: stabilità politica con prospettive di cambiamento, ma anche rilancio economico. Senza un processo di democratizzazione condiviso e una chiara strategia macroeconomica, sarà difficile per l’Egitto procedere ad una normalizzazione istituzionale e ad una ripresa costante nel lungo periodo. Se così fosse la strada, verso una vera stabilità sarebbe ancora lunga, pericolosa e tortuosa.