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La Spagna e la vita segreta delle parole

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La storia della relazione fra un’infermiera praticamente sorda ed un lavoratore di una piattaforma petrolifera quasi cieco: è la trama del tristissimo e tenero film di Isabel Coixet – intitolato appunto La vita segreta delle parole – cioè un dialogo fra un sordo e un cieco. Ed è un’ottima metafora di ciò che sembra diventato in questi ultimi frenetici mesi il linguaggio della politica spagnola.

Il cambiamento del lessico corre veloce, in forma “virale”, sul web, sulle reti sociali, trapassando da parte a parte i media tradizionali. A volte questi ultimi continuano a parlare con la voce impostata e rassicurante dei mezzobusti di sempre; altre volte, sedotti o semplicemente investiti dalla potenza dei nuovi fenomeni comunicativi e politici, ne adottano codici e contenuti, in un costante processo di ibridazione.

Nonostante si tratti di una tendenza comune a molti Paesi del continente, la rottura del linguaggio e delle forme tradizionali di far politica (ma quale fenomeno precede l’altro?) in Spagna sembra avere delle specificità ben precise e soprattutto una data di nascita: il 15  maggio del 2011, quando prese inizio il movimento dei cosiddetti indignados – abbreviato dunque in 15M. Migliaia e migliaia di persone, convocate soprattutto attraverso la rete, occuparono per mesi le piazze di città e paesi spagnoli, come un magma incandescente, a volte contraddittorio, ma vivissimo, per protestare contro la crisi economica, la corruzione, i tagli al welfare, la sclerosi del sistema politico considerato lontano ed insensibile.

Non che mancassero segnali precedenti di una tale evoluzione: come sempre i fenomeni di cambiamento non spuntano dal nulla. Ma non c’è dubbio sul fatto che fu il 15M a far entrare nel lessico politico comune, ancor prima che nel lessico politico ufficiale, alcune parole destinate a divenire potenti strumenti della stessa ridefinizione della realtà. E come è noto, nel momento in cui si può verbalizzare un fenomeno, questo automaticamente comincia a esistere e a camminare sulle sue gambe.

In Italia all’inizio degli anni Novanta, fu la “gente”, che sostituì i “lavoratori”, i “ceti medi” o, semplicemente, il “popolo”. Nella Spagna post-2008 – che per certi versi ricorda proprio l’Italia della fine della Prima Repubblica – le parole fondamentali sono più d’una. Innanzitutto, cittadinanza e democrazia; anzi democrazia aggettivata come reale, che si contrappone a quella formale. Quest’ultima, considerata ormai spompata e sterile, appartiene al sistema uscito dal periodo chiamato Transizione, successivo alla morte di Franco, in cui furono decise le caratteristiche della nuova Spagna democratica.

Rappresentanza è un’altra parola chiave del movimento del 15M – basta recitarne lo slogan più ripetuto: “voi non ci rappresentate”. Fu proprio allora che in Spagna cominciò a diffondersi il concetto di “casta”, utilizzato per indicare prima di tutto i politici, lontani dagli elettori – bisogna anche ricordare che la legge elettorale spagnola, di rango costituzionale, prevede liste totalmente bloccate e sotto il controllo dei partiti. In effetti, e questo appare uno degli elementi specifici della situazione politico-filologica spagnola, il termine è stato sempre più spesso applicato a tutti coloro che abbiano avuto una qualche responsabilità nelle istituzioni, compresi i sindacati.

Si dirà che si tratta del carattere iberico così votato alle posizioni estreme, abituato ad esplodere d’indignazione ed emettere giudizi, diciamo, un tanto al chilo. Eppure, la generalizzazione di quel termine si è vista almeno apparentemente confermata dai fatti. Anche solo limitandosi ai fenomeni di corruzione, i casi venuti alla luce negli ultimi mesi hanno coinvolto politici, sindacalisti, imprenditori, amministratori locali, boiardi di Stato (o delle potentissime regioni), e addirittura la casa reale.

Da questo punto di vista, il 15M, anticipa, contiene, mescola, moltiplica tutte le parole per distruggere un sistema di significati politici. E le mette a disposizione di una società stressata, impoverita, disoccupata, incattivita, vessata da anni di dura crisi sociale. Proprio il sistema costruito durante la Transizione, considerato ora incapace di garantire sufficienti condizioni di vita, lavoro e dignità sociale. Allo stesso tempo, le nuove parole del linguaggio politico consentono di definire i contorni di un nuovo scenario possibile.

Non c’è dubbio che i due grandi partiti politici “nuovi” – Podemos e Ciudadanos – siano l’epicentro e lo specchio di questo terremoto linguistico. I primi si dichiarano direttamente eredi del 15M; i secondi, formazione liberale e neocentralista nata in Catalogna nel 2006 e ora in piena espansione in tutto il territorio statale, sperano di poter diventare un competitor serio dei popolari di Mariano Rajoy, la destra “storica” ora al governo. E hanno costruito la propria forza proprio sul nome: “cittadini”, anch’essa una delle parole fondamentali del 15M. Podemos e Ciudadanos hanno un evidente vantaggio: possono usare il linguaggio della cosiddetta “nuova politica” – battendo insistentemente sulla dicotomia cittadini/casta e superando quella tradizionale destra/sinistra – senza pagare nessun prezzo, visto che di fatto fino ad ora non sono integrati nell’establishment, né hanno alcuna esperienza di governo.

In realtà il terremoto sta scuotendo tutto l’insieme delle forze politiche e della stessa società civile, anche se ancora con intensità e modalità diverse. I due grandi partiti nazionali (il bipartitismo era costituito oltre che dai Popolari, dai Socialisti del PSOE) oscillano fra il mantenimento di forme e linguaggi tradizionali e il timido inserimento di elementi di novità. I Socialisti, nel novembre scorso, hanno scelto il loro Segretario Generale, Pedro Sánchez, per la prima volta con un sistema di primarie aperte a tutti i militanti, alla fine di una campagna elettorale interna in cui le parole più ripetute sono state “trasparenza” e “democrazia”.

I Popolari sono per ora più reticenti, un po’ per le difficoltà oggettive in cui si trovano (fra i casi di corruzione e le critiche a loro rivolte per i tagli), un po’ perché stanno calcolando se presentarsi proprio come i difensori dell’ordine costituito (interno ed europeo), di fronte a pericolose avventure definite populiste; e fino a che punto ciò possa ancora sedurre settori ancora consistenti dell’elettorato.

Al di là delle strategie di ciascun partito, il cambiamento dei linguaggi politici – specchio o conseguenza di un più profondo cambiamento della stessa concezione della politica – sembra comunque essere un fenomeno capace di investire l’insieme dell’agire pubblico, come dimostra lo sviluppo delle spinte secessioniste in Catalogna.

Il massimo del consenso alla causa indipendentista è stato registrato proprio nel momento in cui le rivendicazioni sono state coniugate in chiave democratica, più che nazionalista: il diritto a decidere, più che il diritto a separarsi – coincidente alla richiesta di un referendum, poi negato alla Catalogna. Oggi, l’iniziativa è tornata nelle mani dei due partiti nazionalisti catalani tradizionali (i conservatori di CiU ed i repubblicani di ERC, con i primi impelagati però in vari episodi di corruzione) e a livello statale si stanno consolidando alternative valide percepite come di rottura rispetto al sistema politico disegnato dalla Costituzione del 1978: il movimento indipendentista sembra aver perso decisamente spinta.

Le lettere e le parole ci son tutte; adesso mancano solo i numeri per misurare l’impatto dell’annunciato tsunami della “nuova” sulla “vecchia” politica. Il 22 marzo arriva il primo test elettorale in Andalusia, nonostante tutte le specificità di quel territorio (in cui il PSOE governa ininterrottamente da 34 anni), che darà già delle indicazioni preziose. Poi a fine maggio, amministrative in tutto il territorio e regionali in 14 Comunità autonome su 17. Per novembre – quando si terranno le elezioni nazionali – si potrà dire infine che lingua parla la politica spagnola.