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La scelta rischiosa di Obama sulla rifoma sanitaria

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Nell’analizzare la discussione in corso sulla riforma sanitaria di Obama, le accuse di incostituzionalità e il ruolo della Corte Suprema, si può partire da una domanda “a monte”: la legge sulla copertura sanitaria universale avrebbe potuto evitare il vaglio della corte? In altri termini: la Casa Bianca avrebbe avuto modo di aggirare il calvario legale e politico che ha fatto infine approdare la legge alla corte più alta? La risposta a questa domanda è sì. Al presidente sarebbe bastato aumentare le tasse ed estendere la copertura sanitaria dei programmi Medicaid e Medicare a quelle decine di milioni di americani senza assicurazione sanitaria che sono al centro della contesa. Nessuno stato, nessun avvocato, nessuna corte e nessun parere legale avrebbe potuto minare la legittimità di tale operazione, come invece è accaduto.

Il motivo per cui il presidente americano non si è messo su quella strada è squisitamente politico. Un aumento delle entrate per garantire la copertura sanitaria universale sarebbe stato troppo costoso in termini di popolarità. Dunque, per ottenere lo stesso scopo la Casa Bianca e il Congresso hanno scelto una via più tortuosa e giuridicamente fragile: quella di obbligare per legge tutti i cittadini americani non coperti dai programmi per gli indigenti e gli anziani ad acquistare un’assicurazione sanitaria. Il regime di mercato opportunamente calmierato dal governo avrebbe fatto il resto. La legge, così come è stata votata dal Congresso e controfirmata dal presidente, cerca di aggirare il principio costituzionale che limita il potere del ramo legislativo sui cittadini appellandosi alla “clausola commerciale”: questa attribuisce appunto al Congresso il potere di controllare il commercio fra i vari stati della federazione. Uno dei nodi della discussione fra i giudici della Corte Suprema, gli avvocati federali e i legali dei ventisei stati che hanno sollevato obiezioni di costituzionalità all’Obamacare, riguarda proprio i limiti del potere del Congresso sugli scambi tra i vari stati – in questo caso, le transazioni economiche relative alle assicurazioni sanitarie. Il quesito è dunque se l’acquisto di un’assicurazione sanitaria rientri nelle competenze del potere legislativo. Ci si chiede se esista un argine – ad esempio un altro potere come quello dei singoli stati – che impedisca al Congresso di imporre in modo arbitrario ai cittadini di acquistare, oltre all’assicurazione medica, anche i “broccoli”, secondo l’esempio preferito dal giudice Antonin Scalia. Su questo punto le scuole di pensiero si dividono in modo radicale, eppure c’è un’affermazione che sembra mettere d’accordo tutti: la base legale su cui è costruita la riforma è ambigua, scivolosa. Tale valutazione è stata espressa con chiarezza da più parti: dall’avvocato che rappresenta i critici della riforma, Paul Clement, fino al gran giurista liberal della New York University Ronald Dworkin, che sulla New York Review of Books ha scritto una delle più convincenti arringhe in favore dell’Obamacare.

L’attribuzione della “clausola commerciale” al Congresso è figlia di un processo legale avvenuto nel tempo, fatto di sentenze talvolta contraddittorie e di discrezionalità dei giudici, che a seconda dei casi hanno interpretato il potere del Congresso in modo più o meno restrittivo. Ricordare l’assenza di un corpus normativo chiaro in materia mette in guardia da alcune semplificazioni alle quali ha ceduto lo stesso Obama nel valutare la discussione presso la Corte Suprema, sostenendo preventivamente che sarebbe improprio bloccare l’attuazione della legge in questione. I giudici – cinque conservatori e quattro progressisti – non sono chiamati a giudicare il merito della legge, ma la sua compatibilità con i principi costituzionali; e su tale compatibilità sono stati sollevati dubbi proprio perché l’amministrazione ha scelto, per calcolo politico, di costruire la riforma su un terreno legale friabile, passibile di interpretazione.

Quando Obama dice che qualora negassero il profilo di costituzionalità della legge i giudici “prenderebbero una decisione senza precedenti”, non soltanto commette un errore storico (la Corte Suprema non fa altro che revocare leggi che violano la Costituzione) ma alimenta una narrazione manichea e politicizzata del dibattito. In questa rappresentazione ci sono da una parte i giudici conservatori che per supposti motivi ideologici vogliono revocare la legge; dall’altra ci sono i giuristi democratici che combattono la giusta battaglia per la copertura sanitaria universale. Ma nessuno degli attori in scena è chiamato a dare giudizi morali sull’Obamacare. Nessuno è titolato ad emettere un parere vincolante sulla bontà di un sistema dove tutti i cittadini sono obbligati per legge ad avere un’assicurazione medica. Il lavoro dei giudici consiste invece nello studiare il testo della normativa e metterlo a confronto con la Costituzione e con le sentenze che hanno fatto scuola per decretarne o meno la compatibilità. Certo, a nessuno sfugge l’affiliazione politica di giudici che sono pur sempre nominati dalla Casa Bianca; ma che l’architettura giuridica della riforma sanitaria fosse almeno meritevole di dibattito era chiaro dall’inizio. Talmente chiaro che la prima denuncia per incostituzionalità è stata depositata presso una corte della Florida otto minuti dopo che il presidente aveva firmato la legge.

Va ribadito quindi che l’amministrazione Obama avrebbe potuto evitare il problema a monte, ma ha scelto diversamente per una valutazione politica. Ha corso i suoi rischi e ora dovrà accettare le conseguenze.