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La Santa Sede, la transizione tunisina e l’uso della forza contro ISIS

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Sono trascorsi sei mesi da quando Papa Francesco ha accettato l’invito a visitare la Tunisia. Nel settembre 2014 il Pontefice ha ricevuto nel Palazzo apostolico il Presidente Moncef Marzouki, e nel corso dei colloqui sono stati affrontati i temi relativi alla transizione della tunisina e alla coesistenza pacifica tra musulmani e cristiani (questi ultimi sono 30.000 su una popolazione complessiva di 11 milioni).

La decisa apertura di credito del Pontefice nei confronti del Presidente e del governo tunisino è stata il punto di arrivo di un lungo e complesso percorso. Alla fine del 2010, infatti, la Chiesa cattolica locale e la Santa Sede si erano mostrati scettici nei confronti dei sommovimenti nel Paese provocati dalla cosiddetta “Primavera araba”. I cristiani si erano sempre sentiti sufficientemente tutelati dal regime di Zine El-Abidine Ben Ali in Tunisia, così come da quello di Muammar Gheddafi in Libia e di Hosni Mubarak in Egitto. Questo ha fatto sì che i cattolici e la Santa Sede siano stati molto tiepidi nei confronti delle Primavere arabe e siano diventati piuttosto timorosi sul futuro delle minoranze cristiane quando, nel giro di pochi mesi, quei regimi sono caduti e si è aperta una difficile e complessa transizione.

Va ricordato che in occasione del passaggio dall’epoca coloniale alla creazione degli Stati arabi attuali il ruolo dei cristiani era stato di segno completamente opposto: gli arabi cristiani erano stati capaci di prendere le distanze dalle potenze occidentali e avevano partecipato all’affermazione del nazionalismo arabo nel Maghreb e in Egitto e alla costruzione dei nuovi Stati indipendenti. Nel 2010-2011, invece, complice una diplomazia vaticana in crisi e le difficoltà dell’ultimo anno di pontificato di Papa Benedetto XVI, la Chiesa cattolica e la Santa Sede sono rimasti alla finestra, con una buona dose di diffidenza e persino di paura a causa dell’affermarsi dei Fratelli Musulmani in diverse elezioni.

L’ascesa al soglio pontificio di Papa Francesco ha però fatto voltare pagina anche alla diplomazia vaticana. La nomina di un diplomatico di grande esperienza e di riconosciuto valore come Segretario di Stato, il Cardinale Pietro Parolin, ha contribuito a riguadagnare per Roma un rinnovato protagonismo – a cominciare proprio dal Maghreb e dal Medio Oriente. Parallelamente l’evolversi delle Primavere arabe, con l’emergere di rinnovate tensioni e difficoltà, ha spinto anche le forze politiche e religiose di quei Paesi a rimettere al centro l’obiettivo della convivenza e della partecipazione di tutte le minoranze al governo.

Esattamente questo approccio ha portato alla nuova costituzione tunisina, approvata alla fine del gennaio 2014. Su di essa la Santa Sede e la Chiesa locale hanno espresso parere positivo. Lo testimonia l’intervista a Ramón Echevarría, missionario dei Padri Bianchi e vicario della diocesi di Tunisi, realizzata dall’agenzia MISNA e pubblicata dall’Osservatore Romano il 31 gennaio 2014: “È un buon primo passo. Finalmente, il Paese sembra essere uscito da quella impasse in cui era piombato da diversi mesi, grazie alla buona volontà di diverse parti sociali e politiche”. I tunisini, affermava in quell’intervista il vicario della diocesi di Tunisi, “sono stanchi di sentir parlare i politici, li vogliono vedere in azione. Oltre due anni di proteste, scioperi e violenze hanno letteralmente paralizzato la produzione agricola, l’industria e il turismo, le principali voci dell’economia nazionale. Se questo governo riuscirà a infondere un po’ di fiducia alla popolazione le cose pian piano miglioreranno e la gente tornerà a interessarsi alla cosa pubblica”.

Negli ultimi mesi la situazione purtroppo è profondamente mutata: l’ombra del “Califfato”, o Stato Islamico, si è allungata sulla Libia e sugli altri Paesi del Maghreb approfittando della perdurante instabilità politica e delle difficoltà economiche. Di fronte a questa evoluzione del quadro geopolitico nordafricano, Papa Francesco ha espresso la sua sincera preoccupazione ai presuli della Conferenza episcopale del Nord Africa in visita ad limina (il periodico incontro dei vescovi di una particolare regione ecclesiastica con il Papa e la Curia romana che si tiene ogni cinque anni) lo scorso 2 marzo. Per rispondere alla recrudescenza della violenza e dell’odio, ha detto Bergoglio, “dobbiamo lavorare insieme per bandire tutte le forme di discriminazione, di intolleranza e di fondamentalismo confessionale. L’antidoto più efficace contro ogni forma di violenza è l’educazione alla scoperta e all’accettazione della differenza come ricchezza e fecondità”.

Poi è arrivato il drammatico attentato del 18 marzo a Tunisi, mentre le notizie che giungono dalla Libia aggravano ulteriormente il quadro e la preoccupazione vaticana.

A questo punto si pone la domanda cruciale: per fermare l’ISIS il Papa e la Santa Sede sarebbero disponibili ad autorizzare un intervento armato internazionale o di un piccolo gruppo di Paesi? La risposta è affermativa, a condizione però che l’intervento avvenga preferibilmente sotto l’egida dell’ONU. Si apre così uno scenario sotto certi aspetti paradossale: il Pontefice, candidato al Nobel per la pace, rispolvera e aggiorna la dottrina della “guerra giusta” e dà il suo sostegno all’uso della forza per fermare il terrorismo fondamentalista.

È necessario tuttavia approfondire i profili di un possibile via libera del Papa, esplicito o implicito, a un intervento armato. Anzitutto non si tratta di una posizione estemporanea, bensì ben meditata e che affonda le radici nel magistero della Chiesa. Il 18 agosto 2014, nel viaggio di ritorno dalla Corea del Sud, conversando in aeroplano con i giornalisti, a una precisa domanda sulla possibilità di intervento armato per fermare il Califfato, Francesco ha risposto con molta nettezza: “Io sono d’accordo sul fatto che, quando c’è un aggressore ingiusto, venga fermato”. Si tratta di una posizione apparentemente opposta rispetto a quella sostenuta dal Pontefice nel caso della Siria, quando il 7 settembre 2013 ha indetto una grande veglia per la pace e per fermare il possibile intervento armato degli Stati Uniti (e probabilmente di alcuni alleati) in quel Paese. In realtà sia allora sia oggi al Papa sta a cuore che qualsiasi intervento armato, qualora necessario, avvenga in un contesto multilaterale e nel rispetto delle norme del diritto internazionale e del diritto umanitario.

La posizione favorevole all’uso della forza, nelle regioni controllate dall’ISIS e precipitate nella guerra civile, è d’altra parte fortemente sostenuta dalle Chiese locali. Come ha testimoniato monsignor Bashar Matte Warda, arcivescovo cattolico caldeo di Erbil in Iraq in un’audizione di fronte al parlamento britannico nel mese di febbraio: “È duro per un vescovo cattolico affermare che noi dobbiamo invocare un’azione militare, ma dobbiamo farlo. Non c’è altra opzione”.

Con toni meno forti e ultimativi, anche Monsignor Silvano Tomasi, osservatore permanente presso l’Ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra, si è espresso a favore della legittimità dell’uso della forza in questo specifico contesto: “Dobbiamo fermare questo genocidio. Altrimenti in futuro piangeremo per non aver fatto così, per aver permesso che una tale terribile tragedia possa accadere”. E a Ginevra Tomasi ha presentato una dichiarazione intitolata Sostenere i diritti umani dei cristiani e delle altre comunità, in particolare in Medio Oriente preparata insieme con Libano e Russia.

Il problema è come giustificare un via libera, anche implicito, da parte della Santa Sede all’uso della forza, senza esporla a dure critiche. Ci ha pensato il Cardinale Parolin a chiarirlo nel corso di una Lectio magistralis intitolata La pace: dono di Dio, responsabilità umana, impegno cristiano e svolta presso la Pontificia Università Gregoriana lo scorso 11 marzo: “Al terrorismo delocalizzato affermatosi con l’11 settembre 2001, si è oggi sostituito un terrorismo ‘extra-territoriale’ che promana cioè da entità localizzate territorialmente e che giungono perfino ad utilizzare gli strumenti propri dell’attività statale. Nel disarmare l’aggressore per proteggere persone e comunità non si tratta di escludere l’estrema ratio della legittima difesa, ma di considerarla tale – estrema ratio appunto! – e soprattutto attuarla solo se è chiaro il risultato che si vuole raggiungere e si hanno effettive probabilità di riuscita”. Sono evidenti dunque i limiti posti all’uso della forza da parte della Santa Sede: la decisione deve maturare in un contesto multilaterale, preferibilmente il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, non deve perciò essere il frutto di iniziative di singoli Paesi; l’uso deve esser proporzionato, una volta esperiti tutti gli altri tentativi di mediazione; gli obiettivi devono essere chiari e definiti.

D’altra parte il Cardinale è ben consapevole che “la pace non nasce dalla paura delle bombe o dal predominio di uno sull’altro”. Perciò accanto alla riflessione sulla necessità di disarmare l’aggressore, Parolin ha lanciato una proposta molto importante: reintrodurre “l’ufficio per la mediazione pontificia”, già sperimentato nella seconda metà del XIX secolo, sotto il pontificato di Leone XIII e negli anni Ottanta del XX secolo, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II. Si tratterebbe di una struttura capace di fare da raccordo “tra quanto sul terreno già svolge la diplomazia della Santa Sede nei diversi Paesi e parimenti collegarsi alle attività che in tale ambito portano avanti le istituzioni internazionali”.

Come si vede, anche la dottrina della guerra giusta e la nozione di legittima difesa hanno avuto una profonda evoluzione nella Chiesa in questi ultimi anni. E ora la posizione di Papa Francesco rinvia a una serie di altre proposte e di organismi che pongono in una prospettiva totalmente diversa la possibilità di un eventuale intervento armato, sotto l’egida dell’ONU, per proteggere le minoranze minacciate, a cominciare dai cristiani.