Si è tenuto l’11 febbraio uno storico incontro tra due rappresentanti governativi di Cina e Taiwan, che si sono stretti la mano a Nanchino per la prima volta dalla fine della guerra civile nel 1949. Da una parte Zhang Zhijun, capo dell’Ufficio cinese per la gestione degli affari taiwanesi, dall’altra Wang Yu-chi, alla guida del Consiglio taiwanese per gli affari con la Cina continentale. Non è la prima volta che esponenti dei due paesi si incontrano, ma mai in 60 anni si erano seduti allo stesso tavolo due membri dei rispettivi governi. Nonostante non ci siano state conseguenze pratiche di rilievo e non si sia parlato di “riunificazione”, è stato solo istituito un meccanismo ufficiale di comunicazione, e l’incontro costituisce un indubbio passo avanti dal punto di vista politico.
La scelta della sede dell’incontro, Nanchino, non è indifferente visto che è stata la capitale della Repubblica di Cina del governo nazionalista di Chiang Kai-shek ed è la sede del mausoleo di Sun Yat-sen, il fondatore della Cina moderna nel 1911. Come molti osservatori hanno notato, durante l’incontro tra i due politici non era formalmente indicata la carica di governo ricoperta da due (soltanto il nome), ma quando Zhang ha salutato Wang, l’ha chiamato “ministro”, riconoscendo anche solo in forma indiretta il suo governo. Inoltre, durante la visita al mausoleo, Wang ha scandito a chiare lettere: “La Repubblica di Cina, la prima repubblica democratica dell’Asia fondata da Sun Yat-sen, esiste da 103 anni”. Parole spinose dal momento che Pechino non riconosce la Repubblica di Cina ma solamente la Repubblica popolare cinese, fondata dal Partito comunista nel 1949 – cioè proprio quando il Kuomintang guidato da Chiang Kai-shek fu costretto a fuggire sull’isola di Formosa (Taiwan); da allora Taipei si considera, almeno teoricamente, la capitale di tutta la Cina, mentre Pechino definisce Taiwan una “provincia ribelle” da ricongiungere alla madrepatria.
Se si è arrivati all’incontro di Nanchino è grazie allo sviluppo di sempre più intensi legami economici tra le due sponde dello Stretto. Sono lontani infatti i tempi in cui, nel 1996, per intimidire Taiwan e mettere pressione ai votanti all’alba delle sue prime vere elezioni democratiche la Cina lanciava missili nello Stretto. Per decenni il Kuomintang mantenne con la Cina la politica del “nessun contatto, nessun compromesso, nessun negoziato”. Un cauto riavvicinamento cominciò a partire dagli anni Ottanta: nel 1991 venne abolito il divieto di ogni contatto con la Cina, e nel 2001 furono riaperti gli scambi commerciali. L’anno del disgelo fu il 2008, grazie all’elezione di Ma Ying-yeou (poi rieletto nel 2012), il quale spinse per firmare un accordo di grande rilievo sul turismo: furono permessi voli diretti fra lo Stretto solo nei fine settimana e visite di un maggior numero di turisti (tre mila) fra Pechino e Taipei. L’accordo fu probabilmente favorito anche dalle Olimpiadi che si sarebbero svolte nella capitale cinese: il governo comunista aveva infatti interesse a mostrare al mondo il suo volto più conciliante.
L’impennata dei rapporti bilaterali avvenne poi nel 2010 con l’Accordo di cooperazione economica (ECFA), che permise la libera circolazione di merci, forza lavoro e valuta: 539 prodotti taiwanesi ebbero accesso a un mercato enorme come la Cina, e 267 manufatti cinesi poterono entrare a Taiwan. Grazie a questo accordo, l’anno scorso gli scambi tra i due paesi hanno raggiunto un volume di 197 miliardi di dollari. Pechino nel 2013 è stato il miglior cliente di Taipei, comprando il 28,8% delle esportazioni dell’isola, e circa tre milioni di cinesi hanno visitato l’isola. La crescente importanza degli scambi economici ha reso possibile l’incontro di metà febbraio, di cui però non bisogna esagerare l’importanza: sarebbe prematuro parlare di riunificazione.
Si deve infatti ricordare che le prigioni cinesi ospitano circa 1.500 taiwanesi e Pechino non ha mai escluso la possibilità di riprendersi l’isola con la forza: 1.200 missili sono ancora puntati su Taipei e secondo il rapporto 2013 della Difesa di Taiwan la Cina, che continua ad ammodernare il suo esercito, “sarà pronta a invaderci nel 2020”. Evitare un’invasione e aiutare a migliorare i rapporti tra Cina e Taiwan è sicuramente anche nell’interesse degli Stati Uniti, che proteggono l’isola e la riforniscono di armi, aerei, missili e navi. Molti fattori convergono dunque a creare condizioni più propizie a rapporti bilaterali anche intensi tra Pechino e Taipei, ma i problemi restano e sono molti. Del resto, quanto sia prematuro parlare oggi di prossima riunificazione, lo si capisce anche guardando i sondaggi degli ultimi due decenni a Taiwan: mai l’ipotesi del ricongiungimento ha trovato il favore di più del 20% della popolazione. Inoltre, nonostante nell’ottobre scorso il presidente della Cina Xi Jinping abbia detto che “questi problemi non possono essere rinviati per sempre”, alla proposta da parte di Ma di incontrare Xi a margine dell’Asia-Pacific Economic Cooperation summit a Pechino, la Cina ha risposto che sarebbe “inappropriato”. L’avvicinamento è insomma in atto, ma i tempi non saranno brevi.