“È stato ucciso l’assassino”. Con questo titolo, il quotidiano panarabo Asharq Alawsat apriva la prima pagina del giornale, il 3 maggio scorso, dopo l’annuncio della morte di Osama bin Laden. Il giornale, finanziato dai sauditi, è impegnato da tempo nel contrasto mediatico all’ideologia jihadista.
“L’Osama bin Laden che ho conosciuto”, titolava invece Abdel Bari Atwan, caporedattore dell’altro principale quotidiano panarabo edito a Londra, Al-Quds Al-Arabi.
I due principali quotidiani panarabi sono sintomatici delle diverse reazioni nella regione alla notizia della fine dello sceicco saudita: il primo (il cui nome significa “Il Medio Oriente”) è a tratti vicino alle posizioni occidentali, mentre il secondo (“La Gerusalemme Araba”) ha confermato le sue posizioni scettiche nei confronti delle iniziative occidentali nel mondo arabo. Le due prospettive si riscontrano anche nell’opinione pubblica araba in generale.
La maggior parte delle popolazioni del mondo arabo-islamico ha accolto con entusiasmo la notizia dell’uccisione di bin Laden, non entrando troppo nel merito di questioni religiose o legali, e limitandosi a ricordare due elementi principali: lo sceicco saudita era un terrorista, e con le sue azioni ha recato più danni che vantaggi all’Islam come religione e come cultura.
Tuttavia, alcune voci dissonanti si sono alzate, specie dagli ambienti islamisti e più ideologizzati. Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, con riferimento alla morte di bin Laden, ha condannato l’uccisione di qualsiasi individuo “musulmano mujahida (combattente)”.
Gli ha fatto eco la Fratellanza musulmana egiziana, con toni meno marcati, denunciando l’utilizzo della violenza in generale e gli omicidi mirati in particolare.
Sull’altro fronte però le tesi interpretative sembrano più convincente: il già citato quotidiano Asharq Alwsat, con estrema lucidità e chiarezza analitica, ha evidenziato il palese contrasto fra gli appelli a raggiungere i fronti della jihad lanciati da bin Laden e il luogo in cui egli si trovava nel momento del blitz. Colui che era considerato il “capo dei mujaheddin” non è stato ucciso né in battaglia né sul fronte, ma nella sua abitazione privata, mentre molti giovani che hanno aderito al suo appello sono stati uccisi, incarcerati, o si trovano tuttora impegnati sul campo.
Il fondatore di al Qaeda, vivo o morto, ha rappresentato, e continuerà a rappresentare per la comunità jihadista, il nuovo eroe della jihad islamica, il “leone dell’Islam”. È il capo che, grazie ai suoi contatti, il suo carisma, i media, ma soprattutto il suo potenziale economico, è riuscito a colpire al cuore la superpotenza mondiale.
Proprio questa importanza simbolica produce però, nella fase attuale, un duro colpo per una componente del fondamentalismo islamico: sebbene sui fora jihadisti gli utenti continuino a ripetere “siamo tutti Osama”, è innegabile che la sua uccisione abbia privato al Qaeda di un importante riferimento aggregante. A ciò bisogna aggiungere, naturalmente, il cambiamento che sta scuotendo al suo interno il mondo arabo, con la genesi di una società che potrebbe offrire un terreno assai meno fertile per la crescita di nuovi bin Laden. È difficile nella situazione attuale pensare che un personaggio simile diventi l’icona della rabbia islamica.
Non a caso, tra i luoghi in cui la notizia della sua morte è stata accolta con maggiore favore ci sono proprio due paesi arabi che più sono stati danneggiati dalle attività di al Qaeda: l’Iraq – che in modo diretto e tragico ha sperimentato la violenza terroristica su vasta scala – e l’Arabia Saudita – che, in quanto paese natale di bin Laden, ha visto la sua immagine soffrire pesantemente.
Anche in Egitto il clima politico e culturale sembra molto cambiato: gli stessi Fratelli musulmani non vedono nel presidente statunitense Barack Obama un “nemico”, bensì come colui che ha giocato un ruolo fondamentale nella caduta del regime di Hosni Mubarak. Perciò, come ha dichiarato Issam Al-Aryan, (vice capo del partito islamista), la Fratellanza considera la morte di bin Laden un ulteriore segnale di una nuova era fatta di rapporti “naturali” con gli Stati Uniti.
Rimane comunque da non sottovalutare la capacità della rete del terrorismo internazionale di infliggere danni. In tal senso è importante notare, ad esempio, che il mondo jihadista “virtuale” si è mostrato inizialmente cauto nel confermare o smentire la morte di bin Laden, attendendo la diffusione di un comunicato ufficiale da parte del comando centrale di al Qaeda. Soltanto a seguito della pubblicazione del comunicato ufficiale del comando generale di al Qaeda – redatto il 3 maggio ma diffuso il 7 maggio – le varie formazioni jihadiste hanno diffuso i loro comunicati di cordoglio per il martirio del “leone dell’Islam”. Il forum di Al-Shumukh si è confermato centrale nell’informazione e comunicazione jihadista: sulla homepage è stata inserita la frase principale del messaggio che bin Laden aveva indirizzato al presidente americano Obama lo scorso anno: “Giuro su Allah l’Altissimo: l’America e coloro che vivono in America non sognino di vivere sicuri finché noi non vivremo sicuri in Palestina e finché tutti gli eserciti infedeli non si saranno ritirati dalla terra di Muhammad, la preghiera e la pace di Allah siano su di Lui”.
La sfida per l’Occidente, e in primis per gli Stati Uniti, non è tanto quella di eliminare uno ad uno gli altri simboli “minori” della jihad globale, ma piuttosto di sradicarne l’insidiosa ideologia. Un’ideologia che, non dimentichiamolo, proprio in Occidente ha trovato finora terreno fertile. È arrivato il momento di ingaggiare questa sfida coinvolgendo come protagonisti le principali vittime dell’ideologia qaedista: i musulmani, dovunque essi si trovino a vivere.