Ci si è sempre riferiti alla lotta per il potere in Asia centrale come al “Grande Gioco”. Oggi potremmo essere alla vigilia di una nuova grande partita, se sarà confermata la scoperta in Afghanistan di riserve di minerali rari per un valore di circa un triliardo di dollari. Si tratta di una serie di importanti minerali come rame e cobalto, ma anche litio – indispensabile soprattutto per i prodotti elettronici portatili.
Per l’Afghanistan questo ritrovamento può rappresentare una svolta davvero radicale. Per l’Asia Centrale nel suo complesso, potrebbe significare un rimescolamento del panorama geopolitico, con reali opportunità di cooperazione e perfino integrazione regionale, ma anche l’intensificarsi di rivalità e conflitti. In ogni caso, la posta in gioco si sta alzando in misura esponenziale.
Storicamente, l’ importanza strategica dell’Afghanistan è stata legata al suo ruolo di canale per il trasporto delle risorse, ma ora la situazione cambierebbe decisamente. In meglio o forse in peggio? La storia recente ci insegna che, per le nazioni in via di sviluppo, l’abbondanza di risorse si è rivelata più spesso una maledizione che una benedizione. Oltretutto, dove prevalgono la corruzione endemica e la conflittualità interna, ovviamente diminuiscono le possibilità di progresso. In queste condizioni, le scoperte di ingenti risorse naturali possono perfino esacerbare il circolo vizioso già esistente.
Il Congo è un esempio dello scenario peggiore che può emergere da simili situazioni. In questo paese, infatti, decenni di regime oppressivo e violenza sono culminati in un conflitto regionale – lungo ormai cinque anni – che ha coinvolto anche gli Stati confinanti ed è costato oltre quattro milioni di vite umane.
Guardando all’Afghanistan, ci sono in gioco diversi fattori di instabilità che possono concorrere a determinare risultati profondamente differenti. Il pieno potenziale dei depositi di minerali non verrà mai fuori in assenza di un minimo di stabilità interna al paese, di cooperazione regionale e di assistenza internazionale. Se queste risorse non saranno amministrate in modo responsabile e sfruttate a vantaggio della collettività, tale potenziale sarà comunque sprecato. E se la brama di arricchimento personale o tribale dovesse prevalere, il rischio è in effetti peggiore dello status quo.
Questo mette in risalto la necessità d’una leadership più matura nel mosaico politico ed etnico-settario del paese. In Afghanistan, infatti, il potere e l’influenza politica non sono emanati dall’alto verso il basso ma dal basso verso l’alto. L’autorità e il raggio d’azione del governo centrale non si estendono molto oltre Kabul e i maggiori centri urbani. Per questo c’è bisogno di un nuovo contratto sociale che includa tutte le parti in gioco. Senza un simile patto, non si potrà fare molto.
Invece, una distribuzione equa (o quantomeno accettabile) delle opportunità e dei benefici offerti da ingenti risorse naturali potrebbe incentivare quel senso di unità nazionale che fino ad oggi è drammaticamente mancato. Tra l’altro, il fatto che le risorse non siano concentrate sparse per il paese impedisce ai vari gruppi di monopolizzarle. Inoltre, il fatto che l’Afghanistan sia privo di sbocco al mare lo rende dipendente dal punto di vista logistico dai suoi vicini per il trasporto verso i mercati internazionali. E a volersi garantire un ruolo in un futuro economicamente redditizio ci sono quantomeno il Pakistan e l’India, ma anche l’Iran, la Cina, gli Stati confinanti dell’Asia centrale e la Russia. Il quadra di allarga ulteriormente se si pensa che la mancanza di competenze tecniche richiede un contributo della comunità internazionale per l’effettivo sfruttamento delle risorse. Ecco perché nessuno può davvero permettersi di correre da solo in questa gara: in sostanza, un’instabilità su larga scala impedirebbero a tutti di beneficiare di queste risorse.
In tale prospettiva, il fatto che la comunità internazionale sia ovviamente già presente sul suolo afghano rappresenta un grande vantaggio per questo paese. Altrettanto importante diventa l’apporto dei pochi tecnocrati con legami diretti nel paese: ad esempio, l’ex-candidato presidenziale e funzionario della Banca Mondiale Ashraf Ghani. Nonostante i contrasti con il Presidente Karzai e la relativa inesperienza politica, infatti, il suo curriculum in materia di sviluppo internazionale resta comunque preziosissimo. Si potrebbe anche immaginare una sorta di agenzia indipendente di tecnocrati afghani e stranieri, che resi al riparo da interferenze politiche dirette nel supervisionare le riserve minerarie.
Riguardo agli investimenti stranieri, la migliore opzione consisterebbe probabilmente nel ratificare accordi esclusivi a lunga scadenza con un gruppo selezionato di multinazionali. Queste multinazionali, oltre a percepire gli introiti, dovrebbero impegnarsi a costruire le necessarie infrastrutture e contribuire allo sviluppo di progetti di importanza prioritaria per le comunità locali. Nel corso di questa recessione globale, molti paesi hanno beneficiato di massicce iniezioni di capitale cinese. Alcuni funzionari governativi afgani coinvolti nelle concessioni cinesi sulle miniere di rame sono stati recentemente denunciati. L’episodio può vedersi come un primo test delle prospettive del paese in assenza di un’adeguata supervisione internazionale.
Nel complesso, c’è un interesse comune nel gestire al meglio le nuove opportunità che si stanno presentando in Afghanistan: in fondo, aiutare il paese a raggiungere la stabilità politica necessaria per trasformarsi in una nazione auto-sufficiente rappresenta comunque la exit strategy più sicura.