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La politica estera di Obama, i voti di fine anno e la sfida asiatica

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In un’intervista alla CBS dell’11 dicembre, il presidente Obama ha valutato in modo assai lusinghiero il lavoro legislativo e di politica estera della sua amministrazione: in una ideale graduatoria si è infatti collocato alla pari con i migliori presidenti della storia americana – “con le possibili eccezioni – ha detto Obama – di Johnson, FDR e Lincoln”. Ha poi ammesso che sul fronte economico, invece, c’è ancora molto da fare.

Oltre ad aver suscitato il prevedibile sarcasmo di vari commentatori di area conservatrice, queste dichiarazioni del presidente sono interessanti soprattutto sul versante della politica estera: in effetti è proprio in questo settore che Obama può sostenere in modo credibile di aver raggiunto risultati assai positivi, pur in un contesto globale difficile e in una fase di relativo declino americano.

Il 2011 è stato un anno simbolicamente importante per chiudere alcune difficili “parentesi”, e forse un’intera fase della politica estera americana: l’eliminazione di bin Laden (e l’uscita di scena di Gheddafi), il ritiro dall’Iraq (pur tra molti rischi sul “dopo”) e l’avvio del ritiro dall’Afghanistan (pur tra gravi incertezze sulla tenuta del governo Karzai e sui futuri rapporti con il Pakistan). Si tratta di promesse che il presidente aveva fatto fin dall’insediamento (tranne nel caso di Gheddafi, che comunque è da decenni una piccola spina nel fianco per Washington). Di fronte alla sfida delle transizioni arabe, l’amministrazione ha scelto la linea – forse poco esaltante, ma quasi certamente corretta – della prudenza: Washington ha ribadito sistematicamente il proprio sostegno morale alle transizioni democratiche ma non si è schierata in modo diretto nell’appoggiare alcuna forza politica, movimento o fazione. Data la complessità dei processi di cambiamento, l’inevitabile tentativo di ritorno delle forze conservatrici, e l’emergere di inediti partiti islamisti “moderati” che dovranno ora essere valutati alla prova dei fatti, anche su questo dossier si può considerare positivamente la performance del team Obama – caso libico compreso. Il medesimo approccio è stato adottato nella gestione del problema iraniano – tuttora lungi dall’essere risolto – su cui quantomeno non sono stati commessi errori di calcolo: una questione per cui molte opzioni restano possibili.

Guardando alla crisi dell’euro, è chiaro che i margini di manovra di Washington sono limitati, ma anche qui l’atteggiamento prudente sembra davvero l’unica scelta opportuna.

Quanto alla Russia, il principale obiettivo americano di medio termine è stato raggiunto con la firma del Trattato START2 sulle armi nucleari strategiche, che lascia aperta la strada per ulteriori sforzi di collaborazione su singole questioni di interesse comune.

E’ intanto proseguito il processo di parziale allineamento tra la strategia di sicurezza americana e quella dell’India nel grande scacchiere dell’Oceano Indiano e Pacifico – peraltro avviato da G.W. Bush.

Ora, proprio a fine anno, è arrivato un momento di possibile svolta decisiva su una scala diversa e con implicazioni di più lungo periodo: la morte del dittatore nordcoreano Kim Jong Il, che precipita una serie di aggiustamenti in Asia orientale e presenta un test cruciale per le relazioni tra Stati Uniti e Cina – il rapporto bilaterale più importante al mondo. Il delicatissimo passaggio di consegne in Corea del Nord si inserisce nel contesto di un indurimento della linea americana rispetto al contenimento della Cina: i segnali in tal senso sono molti e non più ambigui (come abbiamo già analizzato su Aspenia online). Al contempo, proprio i grandi rischi di una deflagrazione nella penisola coreana (nonostante gli sforzi del governo di Seul per gestire e tenere sotto controllo la crisi) impongono ora uno stretto coordinamento tra Washington e Pechino. Washington dovrà contribuire ad un assetto regionale sostenibile che poggi soprattutto sugli equilibri tra gli stessi paesi asiatici, di cui la Cina è un protagonista indiscusso; Pechino dovrà dare garanzie di usare la propria influenza in modo costruttivo e accettare un ruolo attivo degli Stati Uniti nella stabilizzazione della penisola coreana.

In sostanza, questo è il momento della verità: vedremo se può davvero funzionare un rapporto sino-americano di “competizione regolata” e cooperazione selettiva – cioè non di contrapposizione e conflitto, che avrebbe esiti imprevedibili o perfino catastrofici.

Obama merita finora dei buoni voti in politica estera, qualunque sia il giudizio sulla sua politica interna. E’ arrivato però, proprio con l’anno elettorale, il tempo delle verifiche senza appello – anche perché il sistema asiatico al centro del quale si colloca la Cina è cruciale per le prospettive di ripresa economica dell’America, oltre che per la sicurezza internazionale. Reagire con efficacia all’evoluzione in atto in Asia orientale è dunque necessario sia per la rielezione dell’attuale presidente sia per evitare uno scontro tra le due maggiori potenze mondiali.