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La politica estera di Obama e le crisi multiple: lo smart power alla prova

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Nelle ultime settimane la nuova crisi egiziana e la forte accelerazione di quella siriana hanno puntualmente riproposto uno schema interpretativo: la critica severa, da parte di vari commentatori, alla politica estera di un’amministrazione Obama. Questa sarebbe rea di acquiescenza, remissività e scarso uso di leve deterrenti per difendere, di più e meglio, gli interessi americani e per estensione quelli occidentali.

Tuttavia queste critiche, a guardare bene, nella sostanza non vanno quasi mai oltre lo scontato rilancio delle dichiarazioni degli avversari politici dello stesso Obama, condite semmai con qualche notizia in stile pseudo insider. Tutti questi rilievi mirano sostanzialmente a confermare la definizione lame duck (letteralmente: anatra zoppa) per descrivere il cammino di un presidente inerme o inefficace, ormai nella fase terminale della sua esperienza di leadership.

In risposta  a questo orientamento di molta stampa potrebbe tornare utile un minimo di prospettiva storica, per comprendere meglio ruolo e posizionamento dell’attuale diplomazia americana.

Ricevendo in eredità dalla precedente amministrazione due guerre convenzionali da concludere (Afghanistan e Iraq), una guerra non convenzionale (terrorismo), e la grande recessione economica del 2008, Obama e il suo team di politica estera hanno sin dai primi giorni del 2009 gestito un crescendo significativo di crisi, alcune delle quali assolutamente inedite.

Ripercorriamole in rapido elenco: la guerra di Gaza del 2009, la crisi del debito sovrano in Europa, le minacce nucleari di Nord Corea e Iran, le primavere arabe, la guerra in Libia, la destabilizzazione della Siria, il ritiro dall’Iraq e la gestione complessa delle truppe in Afghanistan, i nuovi fronti africani quali Mali e Yemen e infine il cyber spionaggio con le gravi fughe di notizie dei casi WikiLeaks e Snowden. Come ben si vede ciascuno di questi capitoli esprime caratteristiche di unicità e complessità, molte delle quali ancora in divenire.

Occorre allora ricordare che, dal suo insediamento, l’amministrazione Obama ha palesemente e coerentemente adottato il principio dello smart power: ovvero una pluralità di condotte multilaterali improntate all’impiego di tutte le opzioni sul campo per la composizione pacifica delle crisi. In questo senso l’ex segretario di Stato Hillary Clinton è stata più volte esplicita: i pilastri della politica estera americana erano e resteranno tre: difesa, diplomazia e sviluppo. Gli ultimi due sono deleghe del dipartimento di Stato, mentre la prima spetta al presidente (e sotto Obama la difesa ha avuto costanti, seppure graduali e non drastiche, riduzioni di bilancio).

D’altro canto Obama ha dimostrato anche di essere un commander-in-chief dinamico, ben oltre la clamorosa operazione contro Osama bin Laden. Il presidente ha autorizzato, ad esempio, il bombardamento della Libia con missili tomahawk senza passare dal Congresso, e per questo ha dovuto affrontare la mozione di un deputato repubblicano (Joe Heck, NV) che considerava, come altri giuristi del Pentagono, incostituzionale quell’atto.

Lo stesso team di politica estera costruito da Barack Obama e Hillary Clinton in questi anni, ha espresso nelle sue fila diversi “falchi”, ai quali sono andati incarichi di spessore: basti ricordare i nomi di Tom Daschle e Dennis Ross, come anche personaggi di stampo “interventista” (sebbene sul versante liberal) come Susan Rice. E ancora, la politica verso Cuba è in perfetta continuità con le precedenti amministrazioni repubblicane mentre assai marcato è stato l’impulso dato da Obama alla guerra, tutt’altro che “pulita”, con i famigerati droni. La prigione di Guantánamo, infine, è in piena attività e si trova al centro di una polemica sull’alimentazione forzata che investe direttamente il tema dei diritti umani.

Criticare quindi Obama per fiacchezza in Egitto o in Siria è dozzinale tanto quanto sostenere che ritirando i marines dal Libano dopo l’attentato che ne uccise 241, Ronald Reagan fu debole in politica estera e regalò nel 1984 il paese a Hezbollah.

Gli scenari mediorientali comportano politiche che danno risultanze nel medio o lungo periodo, per le quali è spesso fuorviante esprimere giudizi affrettati. Comprendere le dinamiche egiziane significa allora soffermarsi non solo su quello che accade alle élite, pure se attorno ad esse si gioca la battaglia più evidente. Il fenomeno d’islamizzazione di un paese – vedi caso algerino – è un processo lento e stratificato, proveniente in genere dal basso e capace di aggirare i livelli più alti della politica e dell’amministrazione di uno stato.

La tensione interna alla società egiziana, tenuta congelata dal regime di Mubarak per oltre trent’anni, è quindi solo agli inizi e le fazioni – dai militari golpisti ai Fratelli musulmani, dai laici minoritari ai neo-nassiristi – stanno giocando tra loro una partita interna nel quale tanto l’America quanto l’Arabia Saudita (che in molti hanno visto uscita rafforzata dalla crisi grazie a un ingente piano di aiuti offerti al Cairo) non saranno in grado di apportare condizionamenti significativi.

Obama, in sintesi, non sta perdendo l’Egitto perché l’Egitto forse saranno bravissimi a comprometterlo gli egiziani medesimi, se dovessero spuntarla alla fine le forze regressive. D’altronde l’Islam ha molte facce e i regimi – quand’anche ispirati alle idee del materialismo storico e del socialismo realizzato (vedi appunto l’Algeria a partito unico degli anni Sessanta e Settanta), ne sono spesso condizionati: sia quando la cultura islamica è in grado di permeare i vari livelli dell’amministrazione, sia quando la minaccia islamista obbliga (o serve da alibi) alla sospensione della vita democratica per via militare.

Le critiche a Obama sono inoltre sospette dal momento che gli osservatori occidentali oggi così severi sono parsi poco attenti durante l’anno di presidenza Morsi, annus horribilis sul versante dei diritti umani e civili. Torture, carcerazioni e diritti delle donne calpestati da una visione oscurantista e repressiva, situazioni alle quali vanno aggiunte incriminazioni e processi nei confronti di giornalisti e blogger accusati di blasfemia. Sotto Morsi sono state inoltre colpite e chiuse diverse organizzazioni non governative, mentre la violenza contro la comunità musulmana sciita e quella cristiano copta ha toccato livelli preoccupanti.

In una recente intervista televisiva sull’Egitto, Obama è quindi stato esplicito: per l’Egitto la bussola è data dalla valutazione di quali saranno i vantaggi per l’America solo nel lungo termine.

Il medesimo approccio viene adottato, pur in condizioni ovviamente differenti, alla Siria: di fronte a una violenza che la diplomazia USA cataloga come sectarian (cioè tra fazioni) e non come guerra convenzionale, Obama ha invitato espressamente a non sopravvalutare il ruolo degli Stati Uniti. E di questo atteggiamento si dovrà tenere conto anche nei prossimi giorni e nelle prossime settimane a fronte di un eventuale uso della forza contro obiettivi del regime di Assad – uno scenario che incendierebbe, come nella situation room a Washington sanno bene, anche la vasta galassia Hezbollah entrata prepotentemente negli ultimi mesi a far parte del conflitto siriano.

Con dovizia di argomenti un recente studio di Chatham House (The Next Chapter: President Obama’s Second-Term Foreign Policy) sottolinea come, a differenza di tutti i suoi predecessori, Obama nel secondo mandato con buona pace dei suoi critici si concentrerà probabilmente sulla politica interna, seguendo il principio pragmatico del “nation building at home”.

La crisi egiziana e quella siriana offrono allora lo spunto per due suggestioni finali: il peso specifico dei paesi “emergenti”, soprattutto in chiave regionale, e il ruolo di “camera di compensazione” esercitato da Washington.

I cosiddetti BRICs e altri paesi con massicce riserve finanziarie e politiche estere assai attive,  sono oggi potenze regionali: nulla di più, ma anche nulla di meno. L’autorevolezza di Washington va quindi misurata in base ai rapporti con nazioni che non sono in grado di impensierirne il ruolo di supremazia, ma di condizionarne (o logorarne) le politiche regionali nei teatri d’influenza sì. La Cina per la Corea, la Russia e l’Iran per la Siria, l’Arabia Saudita o il Qatar per l’Egitto (ma dal 2009 sono cresciute su scala strategica anche Indonesia e Turchia) sono solo gli esempi più lampanti.

In altre parole: forze troppo piccole per contendere la leadership globale agli USA, ma abbastanza grandi perché Washington ne debba tener conto ricorrendo quasi esclusivamente, al costo di sembrare conciliante, allo strumento dello smart  power. Un dispositivo tutt’altro che improvvisato, facendo ricorso a raggruppamenti informali ormai consolidati: pensiamo al six-party talks per la Corea del Nord, al P5+1 per l’Iran e al Quartet per Israele e Palestina.

Da questa considerazione nasce la seconda: il dipartimento di Stato svolge, mutatis mutandis, il ruolo che Wall Street ottempera nella finanza globale, quello di “camera di compensazione”. Ogni giorno si guarda alle borse asiatiche, poi a quelle europee e si fanno analisi, tabulati e titoli di giornali, ma poi aprono Dow Jones e Nasdaq e tutto confluisce nel loro mainstream. Certo New York non può impedire il crollo di Tokyo o di Shanghai, o le altalene di Roma e Madrid, ma compensa o sublima ogni cosa quando il suono della sua campana apre gli scambi.

Similmente la diplomazia americana, a oltre vent’anni dal crollo del muro di Berlino, non può più permettersi di essere l’unilaterale “poliziotto del mondo”, secondo una rude ma efficace immagine giornalistica datata prima guerra del Golfo; ecco perché Washington gioca fino in fondo (grazie a una presidenza ponderata e alla continuità al dipartimento tra Clinton e Kerry) il ruolo di convinto e principale attore multilaterale: è consapevole delle sue responsabilità di “compensazione” nel viluppo geostrategico del mondo attuale.

Le vicende siriane a cui stiamo assistendo saranno allora un’ulteriore prova del fuoco per gli Stati Uniti, oltre che per l’intera comunità internazionale.