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La nuova Intifada: una crisi terminale dei partiti palestinesi tradizionali?

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La cosiddetta “Intifada dei coltelli” si somma agli attentati realizzati in città come Gerusalemme perfino con incidenti automobilistici intenzionali, oltre che sparatorie contro i coloni nella West Bank. Quest’ultima rivolta è caratterizzata da tre elementi principali: l’alta partecipazione delle donne, il ruolo dei social media nella diffusione delle notizie, e la centralità della città di Gerusalemme come focolaio di attentati. 

Contrariamente alle due precedenti sollevazioni popolari palestinesi (Intifada delle pietre nel 1987 e Intifada al-Aqsa nel 2000), le donne sembrano avere un ruolo rilevante: pur non rappresentando la maggioranza assoluta, molti degli attentatori sono infatti per la prima volta donne – evidentemente disilluse quanto gli uomini dall’assenza di un orizzonte politico. Esse fanno parte di una schiera di giovani palestinesi istruiti ma – oltre appunto al contesto politico – piagati da un tasso di disoccupazione che si aggira intorno al 31.4%, stando alle fonti dell’Autorità Palestinese.

L’altra caratteristica innovativa di questa terza Intifada, che sembra costituire una risposta tardiva alle Primavere arabe, è l’uso dei social media – in particolar modo di Facebook e YouTube. Queste piattaforme servono – da mezzo efficace di condivisione sul web, oltre che veicolo di immagini degli attentati quasi in presa diretta senza interpolazione mediatica, atte ad incitare all’emulazione del “martire” appena immolatosi – visto che molti degli attentatori sono stati feriti o uccisi. 

Un ulteriore aspetto che contraddistingue questa Intifada dalle precedenti è la centralità di Gerusalemme come luogo di scontri, dove gli attori coinvolti sono principalmente i palestinesi di Gerusalemme est e gli arabo-israeliani, apparentemente integrati nella società israeliana.

La serialità degli attacchi contro cittadini israeliani inermi e coloni da parte di cosiddetti “lupi solitari”, porterebbe a definire questo fenomeno come un movimento spontaneo dal basso senza alcun coordinamento politico da parte dei principali partiti, quali Hamas e Al-Fatah. In realtà, gli episodi che si sono susseguiti soprattutto all’interno della Linea Verde mostrerebbe che i protagonisti della Terza Intifada non siano tanti i palestinesi dei territori, inclusa Gaza, quanto i “palestinesi del ‘48”, ovvero gli arabo-israeliani e i “residenti” palestinesi di Gerusalemme est.

La rivolta si è, infatti, originata a partire dal grido di allarme lanciato dal ramo nord del Movimento islamico, (Al-Haraka al-islamiyya fy Israil o Ha-Tnuah ha-islamit, fondato da Raed Salah nel 1971), costola dei Fratelli musulmani egiziani: la sua strategia si è tradizionalmente basata sull’istituzione con mezzi non-violenti di uno Stato palestinese nel lungo periodo, mantenendo fermo il rifiuto di riconoscere lo Stato d’Israele e puntando all’assoluta autosufficienza della società araba in tutti i settori sociali nodali: welfare, lavoro, cultura e giustizia.

Tale movimento si propone come principale difensore dei luoghi sacri, come baluardo non solo dell’identità palestinese, ma anche di un’identità panaraba e panislamica al contempo, simboleggiata dalla moschea di Al-Aqsa. È stato proprio al grido di “Al-Aqsa è in pericolo” lanciato da Raed Salah che migliaia di palestinesi si sono ribellati alle autorità israeliane, accusate di voler modificare irreversibilmente lo status quo nella spianata delle moschee, permettendo a gruppi sempre più cospicui di ebrei di accedere al luogo per espletare i propri riti religiosi. La spianata resta, infatti, un luogo conteso sul quale gli ebrei religiosi e i coloni oltranzisti rivendicano il medesimo diritto, seppure a carattere non esclusivo, di pregare altrettanto liberamente che alla base del Muro del pianto. 

Come avvenuto nel 2000, quando la famosa passeggiata di Ariel Sharon provocò lo scoppio della Seconda Intifada, il delicato equilibrio sancito dallo status quo vigente nei luoghi sacri si dimostra sempre suscettibile di fornire pretesti all’una e all’altra parte per lo scontro aperto. Tuttavia, la domanda fondamentale non è perché i luoghi religiosi si prestino a tali strumentazioni politiche, ma a chi serva una nuova esplosione di violenza in questo frangente.

Dopo l’“Operazione Margine di Protezione” nella striscia di Gaza nell’estate del 2014, l’ala militare di Hamas ha subito un duro colpo. Dei 2.200 palestinesi uccisi, il 48,7% sarebbero stati combattenti o persone vicine ad Hamas coinvolte nelle operazioni militari (fonti ITIC, Intelligence and Terrorism Information Center). Questo avrebbe portato l’organizzazione ad adottare un approccio decisamente più pragmatico nei confronti d’Israele, orientato a negoziare una hudna, ovvero una lunga tregua. Al contempo, Hamas, privato degli aiuti iraniani – a seguito delle posizioni pro-ribelli assunte dalla dirigenza di Hamas in Siria – si sarebbe riavvicinato gradualmente all’Arabia Saudita, in occasione della visita di Khaled Meshal presso Re Sultan lo scorso luglio. Infine, nella nuova strategia di Hamas sembra rientrare un cauto riavvicinamento anche all’Egitto di Al-Sisi per la riapertura del valico di Rafah, fondato sulla comune lotta ai gruppi terroristici che si richiamano a Daesh-ISIS. L’obiettivo sarebbe in particolare la Jamaat Ansar al-Dawla al-Islamiya fi Bayt al-Maqdis, ovvero i “sostenitori dello stato islamico a Gerusalemme”, un gruppo scissionista di Hamas che persegue l’obiettivo di proclamare il Califfato a Gaza e che avrebbe perpetrato una serie di attentati nella striscia tra il maggio e il luglio scorso. In definitiva, Hamas sembra oggi troppo indebolito e preoccupato di riallacciare le relazioni diplomatiche con i partner sunniti del Golfo a livello regionale per sostenere un prolungato round di violenze con Israele. Nonostante, dunque, le sue recenti dichiarazioni – secondo cui l’Intifada sarà lunga – il movimento sta probabilmente avocando una responsabilità ex-post per gli attacchi, più che effettivamente dirigere la sollevazione in corso.

Per quanto riguarda Al-Fatah, il presidente Abbas ha inoltrato vari appelli, sia agli israeliani che ai suoi concittadini, per cercare di bloccare questo nuovo ciclo di violenze che avrà come risultato principale quello di paralizzare completamente la sua offensiva diplomatica alle Nazioni Unite. Inoltre, il braccio armato di Al-Fatah, Tanzim, che avrebbe potuto essere attratto da un coinvolgimento nella ribellione popolare, si è chiamato ufficialmente fuori. È chiaro comunque che l’ANP non è assolutamente una beneficiaria dell’ondata di violenza.

Nella spaccatura profonda venutasi a creare tra Al-Fatah e Hamas, a seguito dell’ennesimo fallimento della riconciliazione nazionale, il principale beneficiario e la nuova forza politica emergente è proprio il Movimento islamico in Israele, che sta conquistando simpatie trasversali tra i sostenitori di entrambi i partiti e non solo tra gli arabo-israeliani. Il Movimento si dichiara equidistante dalle due parti. Non avendo partecipato alle elezioni israeliane dal 2003, non è entrato nemmeno direttamente in competizione con la Lista Araba Unificata di Ayman Odeh votata alla Knesset. Il Movimento, adottando una strategia di lungo periodo, non si sofferma sullo stallo diplomatico attuale, né lavora assiduamente alla costruzione di uno Stato nazionale palestinese lungo le linee del ’67. Esso si adopera, piuttosto, per un rafforzamento graduale della società palestinese attraverso la costituzione di reti e istituzioni economicamente e moralmente autonome dalla società israeliana. Per il governo Netanyahu, che dal 2014 cerca un pretesto per bandire il Movimento in quanto organizzazione terroristica, questo rappresenta un nemico temibile perché, pur rinunciando apertamente alla violenza, è in grado di mobilitare la resistenza palestinese oltre linee partitiche con appelli generali alla “dignità” (con un’eco delle Primavere arabe), godendo del supporto esterno di Qatar e Arabia Saudita.  Il Movimento Islamico potrebbe, dunque, perfino diventare il nuovo attore egemone dello scenario politico palestinese.

A sostegno di questa tesi la dichiarazione ufficiale del capo delle operazioni di polizia israeliane Aharon Aksol, secondo cui non si tratterebbe di eventi a carattere spontaneo, bensì orchestrati proprio dal “ramo nord” del Movimento islamico per testare la sua forza e la reazione israeliana.

Intanto, con il lancio della campagna web “Al tuo servizio, Al-Aqsa”, questa formazione ha dimostrato di costituire una seria sfida per l’attuale establishment, vista la veemente reazione critica dell’ANP.

In un contesto internazionale sempre più indifferente all’evoluzione interna del conflitto arabo-israeliano, Europa e Stati Uniti stentano a riconoscere che i loro appelli al ritorno al tavolo dei negoziati che ripropongono la soluzione dei due Stati trovino sempre meno corrispondenza nella realtà. Gli Stati Uniti, infatti, non sono intenzionati ad aprire una crisi con Israele sul dossier palestinese (anche per facilitare il rapido progresso dei negoziati con l’Iran sul nucleare), e l’Europa appare distratta da molti altri problemi. Solo la Francia si è proposta – come spesso accade, in chiave nazionale – come attore attivo, offrendo una possibile forza di peacekeeping nei luoghi sacri: un’interferenza considerata inaccettabile dal governo Netanyahu e dai partiti alla sua destra – La Casa Ebraica e Israel Beitenu-, che rivendicano l’assoluta capacità del proprio governo di gestire la crisi.

Il quadro, in estrema sintesi, è dunque difficile per tutti gli attori politici tradizionali, sia sul versante palestinese che su quello israeliano. Soprattutto, la “piazza palestinese” esprime tutta la sua profonda sfiducia nella soluzione dei due Stati, e sembra ormai sfuggire al controllo delle forze che fino ad oggi avevano cercato di inquadrarla in una prospettiva nazionale laica (Fatah) o islamica (Hamas).