L’ultimo indirizzo conosciuto della leadership talebana, o quantomeno dei personaggi più accreditati per quel ruolo, era sino a ieri la città pachistana di Quetta; ora potrebbe vedere la luce un loro “ufficio politico” a Doha, in Qatar. La gestazione di un passo politicamente importante, che desta speranze ma anche timori, è stata lunga e sofferta. Anche l’ufficio di presidenza di Karzai ha dato luce verde all’ipotesi, ma restano ostacoli da superare.
I talebani legano infatti l’apertura dell’ufficio a due precondizioni: il rilascio di alcuni leader guerriglieri detenuti a Guantanamo e l’abbandono della presenza militare internazionale in Afghanistan. In apparenza, la prima precondizione può essere soddisfatta, mentre sarebbe da escludere la seconda. La realtà è però diversa, perché la seconda precondizione potrebbe essere aggirata se si applica alla richiesta la dialettica della diplomazia politica: la consegna del Paese in mani afgane, prevista dalla Nato per il 2014, indica infatti già che un passo in quella direzione è stato formalmente compiuto.
Più delicata la questione dei prigionieri, che di fatto tocca una serie di problemi strategici: sciogliere il nodo dei prigionieri a Guantanamo richiede infatti un accordo tra talebani, governo afgano e autorità statunitensi.
I nomi dei possibili prigionieri da rilasciare sono più o meno noti. Il più controverso è quello di mullah Mohammed Fazl, ex “capo di stato maggiore” talebano, responsabile dell’uccisione di migliaia di hazara (la minoranza sciita). Vari membri del Congresso americano hanno affermato che non è ammissibile liberare un assassino che corre il rischio di tornare alla sua antica occupazione. Altri prigionieri coinvolti in un possibile accordo potrebbero essere Khairullah Khairkhwa, già ministro ed ex governatore di Herat, il comandante Norrullah Nuri, e alcuni funzionari dell’intelligence talebana. La Casa Bianca non ha ancora avviato la procedura di notifica al Congresso, che richiede un mese di tempo e che serve forse anche a convincere i parlamentari che la merce di scambio non prenderà il volo. Resta infatti un quesito cruciale: dove andranno i prigionieri una volta liberati?
Kabul ha fatto sapere che non accetterà una liberazione in Qatar, rivendicando intanto il diritto dell’Afghanistan di giudicare tutti i reclusi che sono attualmente sul suo territorio (in particolare le diverse centinaia di talebani detenuti nella nuova prigione americana a Parwan che ha sostituito il carcere di Bagram, contestatissimo dalle organizzazioni per i diritti umani). Gli americani hanno già chiarito da tempo che non intendono cedere il controllo del carcere sino al 2014, ma la controparte afgana si appella ad un accordo con la Nato che riconoscerebbe a Kabul il diritto di giudicare e custodire i nemici catturati sul suolo patrio. E’ evidente che la questione ruota attorno all’esercizio della sovranità da parte del governo di Kabul: non a caso, le autorità afgane hanno recentemente arrestato due contractor britannici accusati di possesso illegale di armi, e Karzai ha ripreso a condannare i raid aerei notturni (cruciali nella strategia americana antiguerriglia).
Su questo sfondo, Kabul ha dovuto accettare l’ipotesi di un ufficio talebano nel Qatar obtorto collo, dopo aver inizialmente reagito col ritiro del suo ambasciatore a Doha. Anzitutto, il presidente afgano avrebbe preferito che l’ufficio fosse aperto in Turchia o in Arabia saudita; ma quel che ha più infastidito Karzai è stata la gestione diretta dei contatti con la guerriglia da parte degli americani (e in parte dei tedeschi). I contatti hanno ignorato anche l’Alto consiglio di pace afgano da poco appositamente istituito; la stessa istituzione che i talebani hanno umiliato uccidendone il capo, l’ex presidente Rabbani. Questi (pur essendo a sua volta un avversario politico di Karzai) era comunque l’uomo scelto dal presidente per guidare il negoziato di pace.
L’attuale approccio americano prevede meno uomini e più droni, meno militari e più politica – compreso il riconoscimento dei talebani come controparte. E’ una linea che non semplifica i rapporti con Kabul, né tantomeno con Islamabad (anche i pachistani si sentono infatti tagliati fuori dai negoziati, e c’è stato perfino qualche segnale di avvicinamento con il governo Karzai). Il mosaico afgano rimane frammentato e in parte sotto l’influenza del vicino pachistano, per cui non è chiaro chi esattamente sia coinvolto nella trattativa con i “talebani”. Apparentemente, per l’ufficio a Doha si sta trattando con la shura di Quetta e la fazione di Hekmatyar (che controlla parte dell’Est e del Nordest del paese); ma mullah Omar non si è ancora espresso direttamente, e resta l’incognita della cosiddetta Rete Haqqani, la più qaedista e filo-pachistana fazione della guerriglia. La nuova diplomazia afgana è in movimento.