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La notte magica del Commander in Chief

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Lo abbiamo visto tutti in televisione. Dopo l’annuncio della morte di Osama bin Laden, le strade adiacenti alla Casa Bianca e “Ground Zero” si sono riempite di folle festanti. Giovani universitari, anziani, parenti delle vittime e semplici passanti si sono uniti al coro “U-S-A…U-S-A”, fra sventolii di bandiere a stelle e strisce e brindisi di festeggiamento.

Lo spettacolo è stato accolto in Europa con un misto di sollievo e turbamento. L’episodio offre uno spaccato interessante della differenza di mentalità fra europei e americani. Per lo storico americano Walter Russell Mead, l’ethos militare degli Stati Uniti si è forgiato durante le guerre coloniali dei primi decenni del Seicento. I primi scontri con gli indiani – non quelli, molto successivi, dei film western, in cui la superiorità militare americana era già schiacciante – erano stati vissuti dai primi coloni come una lotta senza quartiere per la sopravvivenza. In un ambiente ostile e di fronte ad un nemico incomprensibile – anche a causa della distanza culturale –non avevano alternativa: dovevano vincere, con tutti i mezzi, o soccombere. Questo atteggiamento mentale è rimasto bene impresso nella memoria dei loro nipoti. Non a caso, Russell Mead nota che, quando l’America entra in guerra, lo fa senza risparmio di mezzi, con l’obiettivo di distruggere l’avversario, non di batterlo “ai punti”.

L’11 settembre ha risvegliato, forse persino più di Pearl Harbor, quella sensazione di pericolo esistenziale che aveva indurito i primi coloni americani. E non è certo un bizzarro caso del destino se il nome in codice usato dai Navy Seals per indicare Osama era “Geronimo”, dal nome del leggendario capo Apache.

Bin Laden era l’incarnazione delle paure ancestrali degli americani.  I festeggiamenti per la sua uccisione sono stati una catarsi. Un grido liberatorio dagli strati più profondi del loro inconscio collettivo.

È difficile pensare ad una reazione di questo genere a Copenaghen, Parigi o Lisbona. Ma ciò è dovuto al fatto che gli europei tendono a sublimare la violenza molto più di quanto non facciano gli americani. Non tanto perché “vengono da Venere” come recitava un famoso pamphlet neocon di qualche anno fa, ma perché, come ha giustamente detto Joshka Fisher, sono i superstiti di Marte; i reduci di trent’anni di guerre fratricide. Al contrario di loro, gli americani sono sempre pronti ad aprire le porte del tempio di Giano, se ritengono che la loro sicurezza sia in pericolo.

La stessa differenza di sensibilità si registra, a ben vedere, anche sulla pena di morte. La cultura giuridica europea l’ha ripudiata da tempo e sono pochi gli europei che, oggi come oggi, si sentirebbero di invocarne il ritorno. Per la maggior parte degli americani, invece, non c’è nulla di più giusto che sopprimere chi si sia macchiato di delitti particolarmente gravi.

Un amatissimo presidente americano, Teddy Roosevelt, si sarebbe forse sentito lusingato dall’impressione europea che vi fosse un che di “barbaro” nei festeggiamenti successivi alla morte di bin Laden. Era stato lui a raccomandare ai propri concittadini di tenersi strette le loro barbarian virtues, senza le quali gaining the civilized ones will be of little avail”.

Probabilmente non c’è nulla di più lontano da questo consiglio della sensibilità molto “Ivy League” del presidente Obama, ma il Commander in Chief sa bene che l’emozione suscitata dall’uccisione di bin Laden potrebbe rivelarsi decisiva per la sua rielezione. 

I presidenti democratici hanno sempre avuto il problema di scrollarsi di dosso la reputazione di essere “soft on security”. John F. Kennedy riuscì a liberarsene mostrando una straordinaria fermezza durante la crisi dei missili con Cuba. Ma lo sfortunato tentativo di liberare gli ostaggi americani in Iran costò la rielezione a Jimmy Carter. Se non altro, la determinazione mostrata in questo frangente da Obama priverà i suoi oppositori di un argomento contro di lui. Un risultato non da poco, in un momento in cui il presidente si è visto costretto a rendere pubblico il proprio certificato di nascita per difendersi dall’accusa dell’ultradestra di non essere nato negli Stati Uniti.

L’eliminazione di “Geronimo” servirà anche a rilanciare la sua immagine di leader. Sono in molti, e non solo fra i suoi avversari, ad aver ritenuto, negli ultimi mesi, che lo stile del presidente fosse troppo dialogante, troppo intellettuale, troppo poco concreto. Assumendosi la responsabilità dell’operazione, Obama ha dimostrato di essere anche “gutsy”, di sapersi assumere responsabilità e rischi.

Va a suo onore, in questo momento così particolare, il fatto di non aver voluto sfruttare in maniera demagogica quello che, obiettivamente, è un trionfo di immagine. Il discorso con cui ha annunciato la morte di bin Laden è stato moderato nei toni ed equilibrato nei contenuti. E lo stesso registro, sobrio e privo di trionfalismi, ha caratterizzato tutta la comunicazione ufficiale statunitense nei giorni successivi. Il presidente americano ed il suo staff sanno bene che toni eccessivamente baldanzosi, assieme alle immagini delle folle festanti, avrebbero forse galvanizzato l’opinione pubblica nazionale ma avrebbero anche danneggiato l’immagine statunitense all’estero, soprattutto nei paesi arabi. E non si può che plaudere al suo rifiuto di mostrare le foto del cadavere di bin Laden, quasi fosse un trofeo o lo scalpo di un nemico abbattuto.

D’ora in avanti, valutando la presidenza Obama, andrebbe forse tenuto a mente qualcosa di più pregnante dello slogan “yes we can” che ha caratterizzato la campagna elettorale 2009. La frase con cui ha spiegato la decisione di secretare le immagini del nemico abbattuto: “We don’t trot out this stuff as trophies. That’s not who we are”.