Il generale Vincenzo Camporini è stato Capo di Stato Maggiore della Difesa – e per molti anni pilota dell’Aeronautica Militare. Il comando alla NATO è un progresso ma l’intervento in Libia conoscerà comunque serie difficoltà. Comincia adesso la fase più difficile. Gheddafi potrebbe resistere a lungo.
Per chi ricorda le operazioni in Kosovo, c’è quasi un’ironia della storia nella situazione attuale: ora sono gli americani che vogliono la NATO, dopo anni in cui hanno dichiarato di non voler mai più combattere una “war by committee”, con i tanti vincoli che appunto derivano dall’esistenza di una coalizione. Insomma, la storia è ciclica?
Personalmente, temo che stiamo assistendo a un rigurgito di rinazionalizzazione e di isolazionismo americano. Certo, è un atteggiamento che non sarà mai dichiarato apertamente, ma i segnali sono numerosi. C’è l’evidente tentativo di smarcarsi, cedendo la titolarità all’Alleanza; e basta leggere il discorso del segretario alla Difesa Robert Gates a Westpoint a fine febbraio, per capire quanto gli Stati Uniti siano in una fase di “retrenchment”. In questa direzione va anche il dibattito in corso sullo sviluppo di un nuovo velivolo da bombardamento strategico più rapido del B2 Spirit attualmente in servizio: in questa ottica, il messaggio che si vuole lanciare è che l’America si può chiudere nel proprio recinto e se necessario intervenire con strike devastanti, senza impegnarsi sul terreno, e in ogni caso mai con forze di terra.
A fronte di tale evoluzione – o involuzione – del ruolo americano, potremmo pensare che questa è nuovamente l’ora dell’Europa…come nei Balcani negli anni Novanta.
È vero, ma purtroppo è proprio l’Europa che esce molto male da questa situazione: non trova nemmeno il modo di provare a elaborare una posizione comune. Il fatto è che i tavoli e le procedure per farlo ci sono, ma non vengono affatto utilizzate: si deve concludere che manca la volontà politica.
Come valuta l’atteggiamento delle Germania in questo contesto?
La Germania sta guardando il proprio ombelico. Sul piano militare, ha problemi seri perché le ristrutturazioni radicali degli ultimi anni hanno messo a dura prova l’efficienza del suo strumento militare. Sono problemi che, inevitabilmente, si riverberano su di noi e su tutta l’Europa.
La soluzione di affidare un ruolo centrale alla NATO – comunque poi si definisca nel dettaglio questo ruolo – è cosmetica, oppure ha un forte significato tecnico-militare? In fondo, i paesi della coalizione non stavano già applicando gli standard operativi della NATO?
La soluzione ha conseguenze sostanziali, ed è quella auspicata dai militari. Non è pensabile condurre missioni complesse e prolungate nel tempo senza unicità di comando. A ciò si combina, sul piano politico, la creazione di una sorta di steering committee dei paesi partecipanti. Non è una novità, è una riedizione di esperienze del passato: ad esempio, la missione Alba del 1997 fu un caso del genere, con una gestione ragionevole e razionale delle operazioni.
E sul piano pratico? Cosa vuol dire effettivamente avere il comando di operazioni internazionali che comunque sono condotte da forze armate nazionali?
Il punto centrale del comando è la scelta degli obiettivi – il “targeting”. Con il cosiddetto “transfer of authority”, si trasferisce il comando di alcune risorse militari all’entità che deve operare – la NATO in questo caso. I paesi rinunciano quindi a esercitare il comando nazionale e diretto, mettendo a disposizione quelle risorse perché vengano impiegate rispetto a obiettivi comuni.
I francesi sembrano aver insistito moltissimo per avere un ruolo di leadership.
È senza dubbio l’evidenza di questi giorni, che però andava, a mio parere, contro il principio di unitarietà di comando, creando anche un serio problema politico.
Ora che vengono assegnati alla NATO compiti di comando, è ancora possibile per l’Italia autodefinire i limiti al proprio impegno?
In realtà l’affermazione relativa ai caveat deve essere qualificata: i Tornado impiegati finora non hanno comunque un ruolo di bombardamento, e infatti dispongono di un tipo di armamento diverso, che non prevede lo sgancio di bombe di caduta. In generale, è ormai una prassi diffusa per ogni paese stabilire i propri caveat. Purtroppo questo vincola in misura significativa le opzioni per chi deve emanare gli ordini operativi.
Guardando alla situazione sul terreno in Libia, sembra che nella fase attuale stiamo esaurendo gli obiettivi relativamente più facili da colpire, e con meno rischi di “danni collaterali”. Se l’analisi è corretta, cosa dobbiamo aspettarci ora?
È esattamente così: stiamo esaurendo gli obiettivi più agevoli. E ora si parla di “scudi umani” perché il rischio grave è che le forze di Gheddafi si mescolino alla popolazione civile: gli scudi umani non sono necessariamente persone schierate davanti alle postazioni missilistiche. Ad esempio, è sufficiente che un mezzo blindato entri in un villaggio abitato per creare lo stesso effetto. La popolazione locale può perfino non rendersi conto di essere ostaggio delle forze armate. E questo crea comunque un dilemma per la coalizione internazionale.
In una recente intervista ad Aspenia online, il Generale Mini ha sostenuto che le operazioni in Libia potrebbero risultare relativamente rapide, data l’estrema asimmetria delle forze in campo, a tutto vantaggio della coalizione internazionale. Lei è d’accordo?
Solo in parte: l’asimmetria c’è, senza dubbio. Ma Gheddafi sa che l’occidente ha predefinito le modalità di intervento, limitando le proprie opzioni. Anche se poi si potrà interpretare in modo più o meno ampio il mandato dell’ONU, il segnale è che le forze fedeli al colonnello hanno un certo margine di libertà. L’unico modo per cambiare la situazione è che gli insorti si organizzino e diventino operativamente più efficienti, ma per ora non vedo segnali in questa direzione. Temo quindi che le cose possano protrarsi.
Esistono i margini per una trattativa con Gheddafi?
Probabilmente sì, offrendogli una exit strategy che non possa rifiutare, per così dire. Ma ad oggi è possibile che rimanga in sella. Non dimentichiamo che Gheddafi è l’espressione di una parte considerevole della popolazione libica.