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La mancata rivoluzione verde e le difficoltà di Obama

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Lo slancio di Obama a favore della tanto decantata rivoluzione verde pare essersi perso fra i mille ostacoli imposti dallo sviluppo delle fonti rinnovabili. Nonostante gli oltre 400 milioni di dollari di sussidi messi sul piatto della bilancia da parte dell’amministrazione democratica, le energie verdi restano ancora poco efficienti rispetto alle energie convenzionali. Il calcolo costi-benefici ha di fatto spinto Obama a finanziare lo sviluppo di nuove centrali nucleari e perfino a tendere la mano ai petrolieri. Se a ciò si aggiunge il disastro della Deep Horizon nel Golfo del Messico e l’avvicinarsi delle elezioni di mid-term – che inevitabilmente consigliano prudenza – appare chiaro come l’agenda verde rischi di divenire una promessa mancata.

Nella campagna elettorale di due anni fa la rivoluzione verde era presentata come un modo di rilanciare l’economia americana, creando milioni di nuovi posti di lavoro; mentre oggi l’amministrazione Obama si trova dinanzi alla dura realtà dei numeri.

Anzitutto il prezzo del petrolio: negli ultimi due anni non é mai arrivato oltre quota 120 dollari e dunque non ha dato agli investitori lo slancio per puntare fortemente sulla conversione del settore elettrico verso fonti verdi.

In secondo luogo, il sostanziale fallimento dei negoziati internazionali per un nuovo accordo sul cambiamento climatico. L’incapacità dei paesi occidentali di indurre le economie emergenti ad accettare obiettivi vincolanti per la riduzione delle emissioni di CO2 per il periodo post-2012 (alla scadenza del protocollo di Kyoto) ha avuto effetti evidenti: il settore energetico ha ritardato gli investimenti in attesa di maggiore certezza circa le politiche ambientali.

Inoltre, in chiave interna agli Stati Uniti, il rifiuto cinese e indiano, in particolare, di adottare tali obblighi vincolanti di riduzione è stata utilizzato dai repubblicani e dalla minoranza democratica dei “blue dogs” per contrastare l’“American Clean Energy and Security Act” (ACESA). Tale proposta di legge, che mirava ad aumentare del 20% entro il 2020 l’utilizzo di energia da fonti rinnovabili e sviluppare su scala commerciale impianti per la cattura e lo stoccaggio del carbonio per le centrali elettriche, si é di fatto persa per i corridoi del Senato dopo avere strappato una risicata approvazione alla Camera. Tale bocciatura politica é stata in buona parte dovuta alla forte pressione esercitata dai gruppi manifatturieri e siderurgici, contrari ai costi della ristrutturazione richiesti dai vincoli della proposta di legge, con i relativi i rischi occupazionali.

Nemmeno l’annuncio da parte del Segretario all’energia Steven Chu della  possibile introduzione della “carbon tariff” (una tassa che imporrebbe una aliquota fissa su tutti i beni importati da paesi privi di obiettivi vincolanti di riduzione delle emissioni) ha indotto l’industria americana e gli scettici al Congresso a sostenere l’approvazione dell’ACESA. Nel sostenere le ragioni della “carbon tariff”, il Segretario all’energia ha sottolineato come essa creerebbe un “level playing field” limitando i rischi di competizione sleale, ed al contempo permetterebbe al governo americano di ottenere solo dai beni cinesi importati negli USA oltre 50 miliardi di dollari all’anno da reinvestire nella conversione dell’industria statunitense. Evidentemente queste motivazioni non sono bastate.

Un terzo dato fondamentale che ha influito sull’agenda verde di Obama è la crisi di assestamento che ha colpito alcuni settori delle energie rinnovabili, quali l’industria solare e le bioenergie. Si tratta di settori che sono cresciuti negli ultimi anni a ritmi importanti, ma sopratuttto a partire dalla seconda metà del 2008 molte società si sono trovate sull’orlo del fallimento o comunque costrette a rivedere drasticamente i loro business plan e le capacità produttive.

Alla luce di tale situazione, l’amministrazione Obama ha deciso all’ inizio del 2010 di investire oltre 50 miliardi di dollari nello sviluppo di nuovi reattori nucleari per la produzione di elettricità. Il piano prevede l’utilizzo di 18,5 miliardi di dollari presenti nel budget del 2009 e non utilizzati, a cui si aggiungono altri 36 miliardi che saranno prelevati dal budget dei prossimi anni, per un investimento complessivo di 54,5 miliardi di dollari nel corso del prossimo decennio.

Tale mossa é stata giustificata con varie motivazioni: aumentare nel mix energetico il ruolo del nucleare per ridurre l’elevata componente delle fonti fossili altamente inquinanti; accrescere la sicurezza energetica del paese; non far perdere terreno agli Stati Uniti nello sviluppo dell’energia nucleare di nuova generazione rispetto ai principali concorrenti. Il piano è fortemente osteggiato dalla maggioranza dei movimenti ambientalisti – che si considerano traditi dall’amministrazione democratica – mentre ha ricevuto il sostegno dei Repubblicani al Congresso, interessati a questa opzione soprattutto per ridurre la dipendenza energetica degli Stati Uniti.

In questo quadro politicamente delicato, il disastro della Deep Horizon nel Golfo del Messico non ha affatto aiutato Obama. Proprio alla luce delle difficoltà appena menzionate, infatti, l’amministrazione stava considerando di aprire un confronto con il settore energetico tradizionale: la vicenda BP ha fatto venire meno le condizioni per un possibile accordo che prevedesse nuove trivellazioni in mare aperto per l’estrazione del greggio a fronte di un impegno per la riduzione delle emissioni nel medio-lungo periodo. Tale ipotesi avrebbe potuto ridurre il livello dello scontro in seno al Congresso, e lanciare un messaggio di apertura al settore industriale nel suo complesso.

I milioni di barili di petrolio fuoriusciti dal pozzo al largo della Lousiana hanno costretto Obama a imporre una moratoria per l’estrazione in mare del petrolio. Questo ha chiuso di fatto la porta a una strategia bipartisan di allentamento della tensione politica: si sono placati gli ambienti più verdi del partito Democratico, ma in effetti sono aumentate le difficoltà di Obama in vista delle elezioni di mid-term sia rispetto agli elettori moderati che ovviamente alle lobby industriali della old economy.

Lo scenario che si é delineato pare non lasciare molti margini di manovra all’amministrazione Obama nel breve e medio termine. Puntando anzitutto a limitare i danni nelle elezioni di mid term, non è comunque certo che si possa ripartire con una vigorosa agenda verde nelle seconda metà della presidenza.