L’11 luglio la Knesset ha varato una legge che dichiara illegale il boicottaggio di Israele e degli insediamenti, invocato o attuato da parte di governi o privati. Boicottare Israele gli insediamenti (cioè istituzioni e autorità locali ma anche prodotti commerciali o eventi realizzati sul territorio) diventa dunque un’offesa civile, che può incorrere in sanzioni amministrative. Uno degli scopi della legge, nelle parole di un esponente del Likud (Ze’ev Elkin) che se n’è fatto promotore, è impedire il boicottaggio culturale, accademico ed economico di aziende o gruppi che risiedono nei territori occupati e provvedere a fornire loro adeguato risarcimento per i costi aggiuntivi eventualmente imposti da tali iniziative. In passato si sono stati registrati casi celebri di boicottaggio, come la campagna lanciata nell’agosto 2010 da artisti ed intellettuali contro l’elevazione a status universitario del college di Ariel, il più grande insediamento attualmente presente nella West Bank. In quell’occasione, il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva minacciato i sottoscrittori dell’appello di bloccare le sovvenzioni indirizzate alle rispettive istituzioni.
La nuova norma equipara, di fatto, lo stato di Israele (internazionalmente riconosciuto) agli insediamenti posti in territorio occupato oltre le frontiere del 1967 (che non godono invece di riconoscimento internazionale). Ciò significa scardinare le premesse su cui poggiano i negoziati condotti dal Quartetto nel solco degli Accordi di Oslo del 1993, fino al discorso pronunciato lo scorso maggio dal presidente Obama; il processo di pace poggia infatti sull’idea di un ritorno ai confini pre-1967, seppure con alcuni aggiustamenti territoriali.
L’approvazione alla Knesset, fortemente sostenuta dal partito Israel Beitenu e dalla maggioranza dei deputati del Likud, è avvenuta nell’imbarazzo generale, in assenza sia del ministro della Difesa Ehud Barak che del premier Netanyahu, formalmente impegnati altrove. Le reazioni non sono tardate: una manifestazione che si è tenuta a Tel Aviv è confluita nella presentazione di una petizione alla Corte suprema da parte del movimento pacifista Gush Shalom, affinché si pronunciasse sulla legge dichiarandola illegale. Un parere negativo (che dichiarasse la norma in contrasto con le leggi fondamentali del paese, non essendovi una costituzione scritta) potrebbe neutralizzare la decisione della Knesset impedendo l’entrata in vigore della legge.
Il braccio di ferro politico che attualmente si gioca in Israele è quello tra una destra che fa leva sul principio di assoluta sovranità della Knesset a tutela della volontà popolare, e una sinistra che si appella alla libertà d’espressione e alla supervisione della Corte suprema come unica istituzione pienamente affidabile. Alla base, vi è dunque una tensione su quali principi debbano guidare la democrazia israeliana, sopratutto in presenza di una forte conflittualità sociale legata tanto a temi di politica interna quanto allo stallo, ormai consolidato, del processo di pace.
Su questo sfondo, è allo studio della Knesset una proposta di legge che renda la nomina dei giudici della Corte suprema di competenza parlamentare, in modo che venga assicurata la compatibilità e l’armonia tra le due istituzioni e che la suprema istituzione giuridica dello stato cessi di essere espressione di una sola parte politica – cioè della sinistra, secondo i partiti conservatori.
La realtà è comunque che l’opinione pubblica israeliana è in maggioranza a favore della legge anti-boicottaggio, in quanto essa promuoverebbe la coesione sociale impedendo la demonizzazione degli insediamenti e dei loro abitanti. Occorre, infatti, ricordare che insediamenti come Ariel, sebbene illegali dal punto di vista dei trattati internazionali, vengono percepiti dall’opinione pubblica israeliana come parte integrante dello Stato di Israele e come luoghi periferici rispetto al conflitto con i palestinesi. Le posizioni della sinistra sono molto diverse: il partito socialdemocratico Meretz, ad esempio, ha iniziato a contrassegnare con un’etichetta verde tutti i prodotti commerciali provenienti dagli insediamenti e venduti nei principali supermercati.
Questo scontro è destinato a proseguire, sia a livello politico che nella società civile: anche a prescindere dal merito di una singola legge dello Stato, è in discussione la natura della democrazia israeliana.