international analysis and commentary

La grande questione europea e il nuovo atteggiamento italiano

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L’approccio italiano alla politica europea ha sempre oscillato dall’entusiasta al costruttivo. Paese fondatore assieme a Francia, Germania occidentale e Benelux, l’Italia ha comunque avuto i suoi momenti assertivi o problematici. Ricordiamo le mosse di Bettino Craxi al vertice di Milano del 1985: la messa in minoranza di Margaret Thatcher permise poi di siglare l’Atto unico, preludio all’Unione Europea; o le crisi-terremoto della vecchia lira. Ma il consenso italiano non è mai stato in dubbio, né il nostro paese è stato mai all’origine di crisi di blocco o veti sulle scelte dell’Unione.

Agli altri fondatori invece è capitato. I capi di Stato francesi sono stati per lungo tempo ispiratori dei progressi dell’integrazione (da De Gaulle a Giscard D’Estaing, fino alla coppia Mitterrand-Delors), ma anche pronti a bloccare l’Unione. Con il referendum che bocciò la Costituzione europea nel maggio 2005, ma anche, ad esempio, quando De Gaulle si oppose all’ingresso degli inglesi negli anni ’60 del secolo scorso. Perfino l’Olanda, nonostante la piccola dimensione, ha saputo mettere la sua impronta sull’UE: sia perché piazza spesso i suoi rappresentanti nelle posizioni-chiave, sia per l’alleanza ferrea con la Germania – e per poco quella coppia non riuscì a escludere l’Italia dall’euro, alla fine degli anni ’90.

La Germania, una volta riunificata, si è infine liberata dalla posizione di debito storico in cui si trovava nei confronti dell’Europa: l’arena comunitaria legittimava ormai pienamente l’esistenza di un forte stato tedesco, nonostante la macchia del nazismo. La Germania ha superato così il suo complesso, fino a raggiungere la posizione di preminenza che sappiamo, assumendo ora posizioni a volte controverse e opponendosi anche apertamente ad altri paesi-membri o ad alcune scelte di Bruxelles.

Il consenso dell’Italia parte da un’adesione quasi incondizionata alle istituzioni internazionali come reazione alle scelte autarchiche e diplomatiche del fascismo. Allo stesso tempo, l’assenza di leadership interne solide e durature (dunque pienamente credibili sul piano europeo) ha a lungo impedito ai governi una seria strategia diplomatica – al contrario di molti cancellierati tedeschi, per non parlare delle presidenze francesi. La stabilità è stata il cemento su cui Berlino, caratterizzata come l’Italia da un atteggiamento “consensuale per forza”, ha saputo sbarazzarsi del suo nanismo politico dopo il 1989.

La “seconda repubblica”, in Italia, non ha prodotto un cemento altrettanto buono. Oggi però, considerando la fase nuova che sta attraversando la politica europea, in cui molti dei nodi dell’integrazione vengono al pettine e vanno ridefiniti con più attenzione i termini del rapporto tra Bruxelles e le capitali nazionali, l’Italia ha l’occasione per provare, finalmente, a liberarsi del suo complesso. Giusto dunque tornare a chiedersi come si sta in Europa. In osservanza delle regole stabilite, per un bene superiore, come piacerebbe a Pierre Moscovici, il responsabile dell’economia della Commissione? O puntando a una specie di contratto tra le parti, rinnovabile secondo certe scadenze? E magari abbandonando la difesa “a oltranza” di un (presunto) interesse europeo? 

In realtà, un’istituzione politica che comprende 28 paesi di cultura sociale, sistema politico, struttura economico-produttiva differenti, semplicemente non può avere un interesse comune tout court. Ciò che chiamiamo interesse europeo è la formula che prevale dal tentativo di sintetizzare i diversi interessi nazionali. Una formula dinamica, in continua trasformazione. Lungi dall’essere in questo senso lo spazio di una politica moribonda, sonnacchiosa, inerte, l’arena comunitaria è invece il laboratorio in cui bisogni, richieste e necessità provenienti dalle capitali nazionali vengono sintetizzati. Dunque, il senso della continuità italiana in Europa è dato dal modo in cui sapremo influire su questo processo dinamico. Per farlo bisogna agire – tenendo ovviamente fermo il principio della partecipazione: mai il rifiuto a priori, mai lo strappo – ma in maniera anche vivace, discorde, tesa. Una posizione statica come in passato, prima ancora che inefficace è perciò inutile, fuori luogo e fuori tempo.

Il cambio di passo italiano delle ultime settimane è apprezzabile in questo senso. Non era certo del tutto atteso nel resto del continente: la reazione infastidita della Commissione a Bruxelles, da Jean-Claude Juncker in giù, è abbastanza eloquente della sorpresa generale. Tuttavia, le cose in Europa non cambiano solo alzando un po’ la voce – se non altro per la stessa intrinseca complessità del processo decisionale. L’azione italiana, perciò, deve innanzitutto essere credibile, dimostrando due cose: il rispetto delle regole, e da questo punto di vista ci siamo, perché pur avendo una crescita bassissima l’Italia è tra i migliori sugli impegni di bilancio; e la non strumentalizzazione, perchè il populismo in salsa pre-elettorale è quotato molto basso al mercato politico di Bruxelles.

Il secondo pilastro di un’azione seria dev’essere la solidità. La vicenda di Tsipras in Grecia ci ha mostrato i risultati di una posizione solitaria. Ma trovare alleati è difficile, considerando che negli ultimi due anni la prassi decisionale e gli “allineamenti” sembrano essersi stabilizzati. Un grande paese in difficoltà come la Francia sarebbe un compagno naturale, ma è pensabile che si stacchi dalla presa tedesca? La Germania di Angela Merkel ricompensa con vari ammorbidimenti sulle regole e diverse posti di influenza (vedi Moscovici) il sostegno che non è mai mancato da Parigi. La strada francese è dunque strettissima.

La Spagna è stata, negli ultimi anni di governo conservatore di Mariano Rajoy, alleata di ferro di Berlino. Tuttavia, è pur vero che le ultime elezioni hanno cambiato le carte: se a Madrid si formasse un governo di coalizione (popolari-socialisti-liberali), con all’opposizione l’estrema sinistra di Podemos, le possibilità per avvicinarsi a una Spagna “italianizzata” aumenterebbero. La convivenza al potere di tre partiti renderebbe impossibile l’assoluta fedeltà a Berlino; e in un paese ancora in crisi, il monopolio della contestazione non può essere lasciato all’opposizione. In prospettiva, un’intesa con la Spagna potrebbe estendersi anche a Portogallo e Grecia, ora retti da governi critici con l’ortodossia dell’Unione.

Senza trascurare altri possibili scenari, come quello di un avvicinamento dell’Italia al Regno Unito, altro soggetto interessato a una revisione delle regole del gioco. Questa possibilità – che richiederebbe comunque molta cautela, sia considerando gli scopi nazionali di David Cameron, sia tenendo conto che Londra non partecipa alle riunioni dell’eurozona – è tra i motivi che spiegano la reazione irritata di Juncker alle ultime uscite di Matteo Renzi. È chiaro infatti che le richieste britanniche romperebbero gli equilibri attuali, indebolendo comunque il ruolo della Commissione, almeno nella sua attuale configurazione.
 
A condizione che si adotti una buona dose di realismo e prudenza, rimodellare la proiezione italiana a Bruxelles è nell’interesse del paese, e della stessa Europa. “Prima di impegnare le mie istituzioni e il mio popolo al servizio dell’Europa, voglio essere certo che ne valga la pena e che soprattutto i miei partner siano altrettanto bendisposti a impegnarsi e a collaborare con noi”, disse il cancelliere tedesco Konrad Adenauer, oggi considerato tra i padri costituenti dell’Unione. Qualcosa del genere è vero anche per l’Italia di oggi: se si costruisse una coalizione pragmatica per accelerare un riassetto europeo verso una maggiore efficacia decisionale, ci sarebbero benefici per tutti.

Anche gli Stati Uniti, spesso visti dall’esterno come un colosso uniforme, garantiscono con la loro Costituzione a ogni singolo Stato della federazione un peso importantissimo nel Senato di Washington. In quel ramo del Congresso, la California è uguale al piccolo New Hampshire o allo spopolato Montana; la garanzia democratica dei singoli membri non va certo a detrimento dell’interesse complessivo. È un’analogia ben nota ai costituzionalisti che hanno immaginato e proposto soluzioni adatte all’Europa di oggi: di certo, è necessario essere sia creativi che disciplinati in una fase di obiettiva crisi decisionale, e i Paesi fondatori devono dare un contributo decisivo.