international analysis and commentary

La Francia, l’Olanda e le tentazioni di seguire le orme britanniche

388

Se degli effetti economici della Brexit si sa ancora troppo poco, fatta salva la dura reazione a caldo dei mercati, ancor più imprevedibili appaiono essere quelli politici, tanto oltremanica quanto nel resto d’Europa. Sul voto che ha spaccato in due la popolazione del Regno Unito si è già detto molto – benestanti, giovani, laureati e città più dinamiche per il Remain; poveri, meno istruiti, anziani, città industriali e zone rurali per il Leave. Ma intanto altri solchi sembrano allargarsi in queste ore nel Vecchio continente. Due casi su tutti: quello della Francia e quello dell’Olanda.

Com’era prevedibile in caso di Brexit, infatti, altri esponenti politici hanno raccolto il “prezioso” assist britannico, lanciando subito la medesima provocazione, cioè  affermando  che ci sarebbe più da guadagnare che da perdere da un taglio netto con la burocrazia comunitaria.

La Francia, in una posizione delicata

È il caso di Marine Le Pen, leader del Front National francese, che ha parlato del voto britannico come di “un segnale di libertà al mondo intero” e di “uno schiaffo al progetto europeo”. Solo pochi giorni prima la Le Pen aveva incontrato il presidente della Repubblica François Hollande per sostenere il quesito referendario anche in Francia, ricevendo in cambio un secco “no”. E ha poi replicato che, “se sarà eletta Presidente della Repubblica, organizzerà un referendum sulla permanenza nell’Unione europea entro sei mesi”. Nonostante anche oltralpe crescano da tempo i germogli dell’euroscetticismo – dei quali la Le Pen è lo sfogo elettorale più solido – sembra difficile, se non impossibile, che allo stato attuale possa trovare spazio una consultazione analoga.

Il baricentro politico francese continua a sentirsi mediamente più vicino alle posizioni socialiste, almeno sulle questione europee. Mentre il fronte che si ispira al gollismo, quello dei Repubblicani di Nicolas Sarkozy, continua ad assorbire in parte l’elettorato lepenista, che faticherà a trovare gli spazi politici per proporre un referendum se non otterrà la collaborazione strategica di altre forze politiche. In Francia, infatti, il potere di indire referendum è riconosciuto dall’articolo 11 al presidente della Repubblica, subordinato peraltro a una previa proposta del governo o delle due assemblee parlamentari operanti in maniera congiunta.

Nel 2005, in un caso analogo, gli elettori francesi dissero “no” alla nuova Costituzione europea. L’episodio segnò una sconfitta per l’allora presidente di centrodestra Jacques Chirac, che fu poi costretto a un rimpasto di governo. Anche in quell’occasione, come nel caso della Brexit, per il “sì” si espressero le porzioni di territorio ad alto reddito (Parigi, Lione e Strasburgo), mentre si oppose la popolazione delle regioni ex-industriali e rurali e dei sobborghi poveri.

Il sentimento politico dei due Paesi, però, non è del tutto paragonabile. L’eccezionalismo britannico in Europa, se così lo si può definire, non ha mai trovato lo stesso tipo di espressione a Parigi, che anzi è una delle travi dell’edificio comunitario. L’Eliseo è stato capace nel tempo di essere abile mediatore nel Vecchio continente proprio tra le istanze autonomistiche del Regno Unito e il desiderio tedesco di controllo e disciplina economici. Se da un lato la Francia si è dimostrata infatti allineata finora a tutte le decisioni tedesche in tema di bilancio – come il famigerato Fiscal Compact – dall’altro ha fatto fronte unico con Londra per frenare ogni progetto di integrazione nei campi della difesa e della politica.

A dimostrarlo ci sono le fughe in avanti e le sintonie sulla questione libica, ma anche alcuni accordi industriali di estrema rilevanza e simbolicità, come quello firmato da David Cameron e Hollande lo scorso 31 gennaio nella base aerea di Brize Norton, nel Regno Unito. Nell’intesa, riguardante i sistemi terrestri, marittimi, aeronautici e spaziali, si rafforzava la ricerca congiunta per lo sviluppo di un drone armato franco-tedesco, da realizzare mettendo insieme l’esperienza maturata da BAE Systems e Dassault Aviation, Un esempio tra tanti di come tra i due Paesi esista un asse privilegiato in questo settore, che non prevede per il momento altri protagonisti.

Ecco perché probabilmente la Francia non ha nessuna intenzione di escludere Londra dalle dinamiche continentali, ma anzi ambisce a recitare anche nel prossimo futuro il suo ruolo di mediatore, seppur con qualche differenza rispetto al recente passato. E ciò potrebbe addirittura rivelarsi più indispensabile e forte che in precedenza.

L’Olanda tra liberalismo e nazionalismo

Più complesso il caso dei Paesi Bassi. I legami storici tra Londra e Amsterdam sono noti, così come quelli economici. Un passato peraltro non facile, fatto di guerre sanguinose, ma anche di lucrosi affari – Royal Dutch Shell è un nome evocativo a riguardo – e di analogie sul piano sociale.

L’Olanda è oggi, per certi versi, una gigantesca City, dove le ragioni del capitale e di un regime fiscale favorevole alle multinazionali (il cosiddetto Dutch sandwich è da tempo nel mirino delle istituzioni internazionali) prevalgono su tutto il resto. In Olanda Bruxelles teme l’ascesa del nazionalista Geert Wilders, leader del Partito per la Libertà, che ha subito manifestato l’intenzione di chiedere un referendum sulla permanenza dei Paesi Bassi nell’Ue, a seguito del risultato del referendum sulla Brexit.  Wilders, in testa ai sondaggi, ha dichiarato che se verrà eletto alle elezioni politiche del prossimo anno convocherà una consultazione anche nel suo Paese.

E, sulle questioni comunitarie, il nazionalista ha già registrato una vittoria lo scorso aprile, quando gli elettori dei Paesi Bassi hanno bocciato con un referendum – tuttavia con una partecipazione elettorale poco superiore al 30% – l’accordo di associazione tra Ue e Ucraina, sostenuto dal governo e avversato dagli euroscettici. Non va poi dimenticato che, assieme alla Francia, anche l’Olanda bocciò nel 2005, con una consultazione popolare, il Trattato costituzionale dell’Unione europea; paradossalmente, i due paesi appartengono entrambi al gruppo dei sei che fondò la Comunità Europea, nel 1957.

Non è chiaro se anche il premier olandese uscente, il liberale di centrodestra Mark Rutte, seguirà Wilders sul terreno della propaganda anti-Ue, innescando – come nel caso della rincorsa di David Cameron all’Ukip di Nigel Farage – quella spirale che ha portato alla Brexit. Va detto però che i due casi fanno storia a sé.Il Regno Unito – potenza nucleare, membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu, piazza finanziaria globale, con un vivace soft power e con una forte influenza sulle sue ex colonie – si ritiene ancora in grado, a torto o a ragione, di essere un protagonista assoluto degli equilibri geopolitici mondiali; l’Olanda, che ha sempre seguito Berlino nelle sue politiche di rigore in Europa, è invece consapevole della sua forza commerciale e della sua attrattiva fiscale, ma anche della necessità di non tagliare il cordone ombelicale dal suo principale mercato di riferimento.

Sul dibattito olandese pesa inoltre il fatto che la Brexit venga vista anche come un’opportunità: in assenza di un punto di riferimento come Londra, i Paesi Bassi potrebbero proporsi come approdo ideale per i tanti investimenti che avevano scelto il Regno Unito come luogo privilegiato.

Dunque anche i due Paesi, pur legatissimi, potrebbero seguire strade ben diverse. È comunque necessaria prudenza, alla luce proprio dell’esperienza britannica, in cui di fatto si è realizzato uno “scenario peggiore” sotto gli occhi un po’ increduli di tutta Europa. Per il momento quasi certamente il referendum in Olanda non si farà: il governo in carica ha detto di non volerlo, dunque tutto dipenderà dalle elezioni del prossimo marzo.

Se Wilders otterrà un’ampia maggioranza e deciderà questa volta di allearsi con forze a lui congeniali, allora avrà la possibilità di indire la consultazione. Se il distacco dagli altri partiti dovesse invece essere stretto, anche l’idea del referendum potrebbe naufragare comunque, perfino nel caso di una vittoria nazionalista. Inoltre non è detto che prevalga il fronte dell’uscita dall’UE: a differenza che nel Regno Unito, , molti sondaggi indicano l’elettorato olandese contrario in larga parte a questa ipotesi. D’altra parte, è opportuno non contare troppo sui sondaggi, in questi tempi di incertezza e volatilità quasi endemica.