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La Francia in Mali: tra passato e futuro dell’Africa

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L’operazione Serval, con cui la Francia dal gennaio 2013 si impegna da protagonista nella risoluzione della crisi interna del Mali, è una delle più significative operazioni militari condotte negli ultimi decenni da Parigi. I quasi 4.000 soldati impiegati in Mali sono un contingente quattro volte superiore a quello di Licorne in Costa D’Avorio, l’operazione armata con cui dal 2002 la Francia è impegnata nel tentativo di concludere la guerra civile nel paese.

Gli obiettivi dell’operazione Serval
L’obiettivo primario di Serval è garantire il ruolo di predominio geostrategico della Francia e lo status quo politico in Mali, in particolare, e in Africa occidentale in generale. Un’eventuale affermazione delle forze ribelli – di estrazione tuareg e araba e alleate con alcune componenti del jihadismo – comprometterebbe la “fedeltà” occidentale del Mali e potrebbe generare tentativi di emulazione negli Stati vicini. La questione centrale resta quindi la sicurezza e il contenimento della minaccia, non certo la corsa alle ricchezze del sottosuolo locale.

Il 2012 ha visto un vero sfaldamento del Mali: la ribellione, scoppiata all’inizio dell’anno nella parte settentrionale del paese, è stata seguita da un colpo di stato nella capitale Bamako, a poche settimane dalle previste elezioni presidenziali (che non si sono tenute). Il presidente ad interim Dioncunda Traoré – posto in carica dai militari protagonisti del golpe guidati dal capitano Amadù Haya Sanogo – non ha potuto fare altro che assistere alla ritirata dell’esercito di fronte all’inattesa forza dei ribelli.

In aprile, gli insorti tuareg hanno proclamato l’indipendenza dell’Azawad (il Mali del nord) e grazie all’alleanza col gruppo religioso di Ansar Dine (“Ausiliari della Religione Islamica”) e con il MUJAO (“Movimento per l’Unità e la Jihad Islamica in Africa Occidentale”) e l’AQMI (Al Qaeda nel Maghreb Islamico), in pochi mesi hanno conquistato metà del paese, fino ad insidiare le ultime roccaforti sulla strada per Bamako.

È stato allora che Traoré si è appellato direttamente alla Francia perché intervenisse in suo aiuto. Il risultato della spedizione militare organizzata da Parigi – divenuta operativa dall’11 gennaio 2013, con l’aiuto di molti altri paesi dell’area (che dovranno fornire 5.800 soldati) – è stato quello di un rapido ripiego delle forze ribelli. Tuttavia, né le cause politiche, né quelle sociali, né il complicato nodo di alleanze e sinergie locali e internazionali che sono alla base della rivolta, sono stati affrontati e risolti.

Dal colonialismo alla Françafrique
I paesi di quest’area geografica sono legatissimi alla Francia, di cui in passato costituivano uno dei più grandi domini coloniali. I loro confini sono stati disegnati arbitrariamente da Parigi senza alcuna considerazione della composizione etnica della regione. Il Mali è grande quattro volte l’Italia, pur essendo popolato solo da 14 milioni di abitanti, in maggioranza musulmani ma con profonde differenze interne. Nel sud del paese, attorno alla capitale, vivono infatti gli eredi degli antichi imperi dell’Africa nera; nel nord vivono invece genti di stirpe araba e tuareg, discendenti dei regni nomadi e carovanieri che presidiavano le piste del deserto e traevano profitto dal commercio degli schiavi.

Il fatto che i rapporti tra queste due componenti fossero stati quasi sempre conflittuali e segnati da numerosi scontri armati non sembrò interessare i francesi al momento della conquista. Alla Conferenza di Berlino (1884-5), che si occupò di spartire il continente nero tra le potenze europee, Parigi ottenne mano libera sull’Africa occidentale interna come compensazione per la perdita dell’Alsazia e della Lorena a vantaggio della Germania dopo la disfatta di Sedan quindici anni prima.

Nemmeno con la decolonizzazione avviata nei primi anni ’60 del Novecento, gli interessi francesi persero peso in questi territori: la politica di assimilazione – cioè l’esportazione delle prassi amministrative e la cooptazione delle élite locali nel sistema di istruzione superiore della madrepatria – fece sì che i legami culturali e di riflesso economici restassero molto solidi. Inoltre, Parigi mantenne una fittissima rete diplomatica parallela – dipendente direttamente dalla presidenza della Repubblica – esclusivamente dedicata agli affari africani. Jacques Foccart, l’uomo chiamato da Charles de Gaulle a dirigere la cosiddetta “cellula africana” dell’Eliseo, dove restò per quindici anni (1960-74), diede forma a quella che è stata definita la Françafrique: la costruzione di reti segrete in grado di influenzare i processi politici degli Stati africani francofoni per promuovere gli interessi transalpini. Questo avveniva grazie all’imposizione di capi politici o militari che dovevano la loro carriera ai finanziamenti e alla benevolenza di Parigi. Foccart faceva il bello e il cattivo tempo in paesi che diventavano l’eldorado delle imprese francesi, che a volte partecipavano alle attività occulte della cellula. E questo è uno dei motivi per cui le strutture politiche dell’Africa occidentale sono rimaste particolarmente fragili.

Oggi gli interessi francesi in Africa sono nettamente ridimensionati: nel 1960 la Francia investiva nel continente l’1% del suo PIL, mentre oggi la proporzione è scesa a meno dello 0,5%. L’intero Occidente ha perso la sua leadership commerciale in Africa. Il classico sfruttamento delle risorse primarie locali (come i metalli) o la lavorazione in loco di prodotti grezzi (come i tessuti) a beneficio dei mercati europei sono stati sostituiti da un nuovo tipo di scambi triangolari, nel quale la maggior parte del valore aggiunto beneficia i paesi emergenti (nel caso africano soprattutto Cina, Corea del Sud e Indonesia). Un tessuto industriale ormai sviluppato e la presenza di manodopera a basso costo rende possibile un processo ottimale di trasformazione sul territorio di questi paesi asiatici delle risorse africane e la rivendita del prodotto finito a prezzi concorrenziali in Europa e negli Stati Uniti.

Gli ingredienti della polveriera
In ogni caso, non sembra che le popolazioni del Mali abbiano finora tratto vantaggi sostanziali dal movimento dei flussi commerciali globali che interessa il loro paese. Il tasso di alfabetizzazione è del 26%, uno dei più bassi al mondo, così come il PIL annuale pro capite, fermo a 1.400$; l’indice di sviluppo umano vede il Mali al 173° posto.

La ribellione scoppiata nel paese non è certo sorprendente. Per un giovane uomo nato nell’Azawad, l’adesione a un gruppo armato non è che una delle poche scelte di vita in alternativa all’emigrazione, alla difficilissima ricerca di un lavoro o all’ingresso diretto nel crimine organizzato che prospera in quegli spazi deserti e incontrollabili.

L’etnia tuareg, che vive nelle zone economicamente emarginate sia del Mali che del vicino Niger e dell’Algeria, si batte da oltre un secolo per ritrovare almeno la propria autonomia politica: prima contro i colonizzatori francesi, che preferivano investire nello sviluppo delle zone attorno al fiume Niger (considerate più redditizie e sfruttabili), e poi contro i neonati Stati post-coloniali, in cui le loro necessità difficilmente trovavano una rappresentanza politica data la condizione di minoranza numerica.

La Libia di Muammar Gheddafi è stata uno degli storici padrini della causa tuareg. I guerriglieri venivano armati dal colonnello, che li impiegava anche in patria come milizie al proprio servizio e faceva da mediatore con gli Stati vicini nel caso di rivolte – come quelle che già all’inizio degli anni ’90 scoppiarono in Niger e nello stesso Mali.

Il parziale tentativo di devoluzione e inclusione sociale portato avanti dal Niger, proprio in risposta a questi eventi, si è rivelato completamente di facciata nel caso del Mali. I tuareg hanno così trovato alleati tra l’altrettanto scontenta componente araba del paese; con la dissoluzione delle milizie di Gheddafi, molti guerriglieri sono tornati in patria carichi di armi e mezzi leggeri adatti al combattimento in zone semi desertiche. L’Algeria non ha poi fatto mancare rifornimenti e aiuti logistici ai ribelli; infine, i gruppi qaedisti attivi nella regione hanno trasferito il loro centro operativo nell’Azawad, determinati a utilizzare la rivolta per i propri scopi dimostrativi, di arruolamento e di organizzazione di concrete azioni terroristiche anti-occidentali – come quella condotta contro il personale franco-inglese che lavora nel sito gasiero di In Amenas, in Algeria.

I gravi limiti della missione internazionale
Nessuno, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ha avuto da ridire sull’interpretazione forzata della risoluzione ONU 2085 approvata in dicembre, che autorizzava sì un intervento militare in Mali, ma di forze appartenenti ai paesi africani della Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (CEDEAO). Stati Uniti e Regno Unito si sono affrettati a sostenere il contingente francese dal punto di vista logistico e finanziario con la sostanziale approvazione di Cina e Russia.

Parigi e Washington sono già d’accordo che l’esercito francese venga gradualmente sostituito da un contingente ONU che si ponga alla guida delle forze inviate dagli altri paesi africani, per impedire che il vittorioso esercito ufficiale del Mali si abbandoni a vendette e regolamenti di conti (già verificatesi), garantire lo svolgimento di nuove elezioni presidenziali entro luglio, e infine consentire alle truppe transalpine di tornare a casa già a partire dalle prossime settimane. Il presidente François Hollande non sa quanto potrà durare ancora l’atteggiamento positivo dell’opinione pubblica nei confronti della guerra, e invece sa bene quanto essa costi alle disastrate finanze del paese.

Gli eserciti africani, ad oggi, non sono ancora stati dispiegati completamente: i paesi della regione che partecipano alla MISMA (Missione Internazionale di Sostegno al Mali) sono dotati di armate scarsamente organizzate, povere, e spesso implicate negli stessi traffici illeciti che dovrebbero combattere. Mauritania e Costa D’Avorio non invieranno combattenti perché la loro situazione interna impedisce di sguarnire rispettivamente le frontiere e il territorio nazionale. Tra gli altri Stati (Nigeria, Senegal, Burkina Faso, Ciad, Togo), il Niger, tra i paesi maggiormente implicati, ha spedito in Mali tutta la sua guardia frontaliera; in cambio dello sforzo, riceverà consistenti rinforzi logistici dalla Francia e ospiterà sul proprio territorio una futura base di droni americani. Shehu Abdulkadir, un generale nigeriano formatosi negli Stati Uniti, è il comandante della missione: il suo battaglione, però, è fortemente sospettato di corruzione e di legami con il gruppo jihadista nord-nigeriano Boko Haram.

Una gestione politica della crisi?
Gli obiettivi dichiarati dell’intervento francese sono “combattere il terrorismo islamico” e “garantire l’integrità territoriale del Mali”. Alla prova dei fatti, però, questi due fenomeni non hanno un legame diretto tra loro. I gruppi terroristici (MUJAO, AQMI) non hanno alcun radicamento in Mali, ma sfruttano il conflitto per moltiplicare le proprie possibilità di attaccare obiettivi riconducibili all’Occidente: è la strategia già collaudata nelle periferie del mondo musulmano, come in Bosnia, Cecenia, Yemen, Afghanistan. Distruggerli attraverso un conflitto militare è praticamente impossibile: se anche la Francia occupasse permanentemente il Mali – ma servirebbero centinaia di migliaia di soldati – i jihadisti, visto il loro scarso numero e la loro provenienza internazionale, attraverserebbero agevolmente gli immensi territori e le frontiere colabrodo per spostarsi un po’ più in là.

Dunque la strategia di Parigi dovrebbe cercare di coinvolgere i gruppi tuareg e arabi all’origine della rivolta nel processo di nation rebuilding del nuovo Mali, e convincerli dell’inutilità di un’alleanza con i gruppi jihadisti. Solo così gli obiettivi politici dei ribelli potrebbero perdere la caratterizzazione religiosa, conservando solo quella etno-nazionalista: il nuovo governo dovrebbe quindi garantire una maggiore e più giusta attenzione economico-politica alle terre e agli abitanti del nord del paese.

Se invece l’intenzione della Francia, che in gennaio ha evitato la caduta di Bamako per il rotto della cuffia, è il semplice disimpegno dei propri uomini e mezzi all’indomani delle prossime elezioni presidenziali maliane, i meccanismi che hanno determinato la ribellione e la successiva necessità di un intervento armato sono destinati a ripetersi.