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La frammentazione del quadro iracheno

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A dieci anni dall’inizio della terza guerra del Golfo, l’Iraq post-Saddam è ancora lontano dallo sviluppo di un processo di riconciliazione e pacificazione nazionale. L’escalation di violenze a sfondo settario, la contrapposizione tra arabi e curdi, la fragilità delle procedure democratiche per conferire legittimità alle istituzioni irachene, e la sempre più intrusiva influenza delle potenze regionali, potrebbero fare dell’Iraq un nuovo terreno di scontro per l’intero Medio Oriente.

Sulle sorti del Paese pesano numerosi fattori oggettivi: difficile situazione economica, carenza di infrastrutture, corruzione dilagante e, soprattutto, questioni irrisolte legate alla sicurezza. Da mesi il Paese dei due fiumi è al centro di una spirale di violenze a sfondo settario che alimenta il rischio di una nuova frammentazione o perfino partizione del Paese. Secondo il sito Iraq Body Count, all’11 aprile 2013 si sono registrate 1.212 morti civili; se il trend continuasse a crescere, il numero di vittime nel 2013 potrebbe superare quello del 2009, anno nel quale morirono 5.132 civili. La scia di violenza non ha lasciato immacolata neanche la contesa elettorale dello scorso 20 aprile – la prima dal ritiro USA dal Paese (15 dicembre 2011). Durante la campagna elettorale sono infatti stati uccisi 14 candidati, mentre altri sono stati feriti o rapiti, costringendo il governo centrale a sospendere il voto in sei province su 18. Nonostante il buon risultato della formazione del primo ministro Al-Maliki, il clima di violenze ha sollevato dubbi sulla credibilità del voto e sulle capacità di leadership da parte del premier uscente, a un anno dalle importanti elezioni parlamentari.

Da tempo, la minoranza sunnita irachena percepisce le politiche di Al-Maliki come arbitrarie e discriminatorie e denuncia il governo di comportamenti autoritari che avrebbero polarizzato la scena politica nazionale attraverso l’uso di misure impopolari volte a tutelare la maggioranza sciita del Paese. Dallo scorso dicembre, le province a maggioranza sunnita di Al-Anbar e Nineveh sono teatro di cruente manifestazioni anti-governative. Le proteste hanno avuto inizio lo scorso 20 dicembre a Ramadi e Fallujah, quando la popolazione sunnita ha ritenuto che il mandato d’arresto nei confronti del ministro delle Finanze, Rafi al-Issawi (membro della coalizione Al-Iraqiya) fosse una scelta del governo dettata da istinti vendicativi.  L’arresto di personalità di spicco sunnite ha un precedente nella condanna a morte dell’ex vice premier Tariq al-Hashemi lo scorso settembre.  

Oltre alle tensioni settarie tra sunniti e sciiti, il tema della sicurezza è da ricondursi ai problemi legati allo sfruttamento degli immensi giacimenti di petrolio nel Kurdistan iracheno. Non da ultimo, i curdi rivendicano maggiore autonomia in termini politici e il diritto di vendere le proprie risorse petrolifere e di firmare contratti senza l’autorizzazione del governo centrale.

Ciò che colpisce oggi è l’assenza di un dialogo nazionale inter-religioso, che coinvolge anche gli stessi sciiti (circa il 65% della popolazione totale), sempre più scontenti del governo autoritario e filo-iraniano di Al-Maliki. Molti sciiti, infatti, nutrono sospetti per le iniziative del giovane e radicale ayatollah Moqtada al-Sadr, uomo molto vicino a Teheran ed in grado di influenzare la scena politica nazionale. Proprio gli atteggiamenti filo-iraniano dell’esecutivo Al-Maliki e di alcuni settori del Parlamento nazionale hanno spinto l’ayatollah Alì al-Sistani, un’autorità moderata e rispettata nel composito mondo sciita iracheno, a denunciare il rischio di un nuovo e più pericoloso conflitto settario provocato da Teheran. La costante crescita di influenza del regime teocratico sull’esecutivo Al-Maliki è dettata dal fatto che esistono non solo forti legami storici tra le rispettive élites sciite, ma anche dai finanziamenti iraniani alle formazioni sciite collegate ad un braccio locale della libanese Hezbollah. Ne è un chiaro esempio l’attentato del 9 febbraio nel campo profughi iraniano di Camp Liberty, a sud di Baghdad, dove sono stati uccisi una decina di mujaheddin del popolo, oppositori di Teheran fin dai tempi della guerra tra Iraq e Iran del 1980-1988.

Le tensioni settarie, la contrapposizione identitaria tra arabi e curdi, e l’incapacità del governo Al-Maliki di portare avanti un efficace processo di riunificazione e institution building, hanno favorito una recrudescenza del proselitismo islamista radicale sunnita e qaedista. In tale contesto ha assunto sempre maggiore rilevanza l’Islamic State of Iraq (ISI) e Jabhat al-Nusra, che hanno sfruttato le tensioni settarie e cavalcato il malcontento sunnita per scatenare una serie di attentati dall’inizio del 2012: gli episodi si sono verificati in Iraq ma successivamente anche nella vicina Siria, con un preoccupante allargamento e un possibile contagio dei vari conflitti. Un progressivo ampliamento del fronte siriano potrebbe portare anche indirettamente a una “regionalizzazione” della crisi e fare dell’Iraq un terreno di scontro tra le potenze regionali. L’Arabia Saudita, ad esempio, teme che la crescente influenza iraniana possa destabilizzare l’intero Golfo, alimentando il perenne scontro politico-confessionale tra il Sunnismo saudita e lo Sciismo iraniano. Nell’ottica saudita, l’Iraq filo-iraniano sarebbe la testa di ponte di Teheran nell’area. Per evitare che il Paese diventi una “nuova Siria” o un “nuovo Bahrain” Riyād avrebbe iniziato ad armare, insieme al Qatar, i ribelli siriani e i gruppi armati sunniti iracheni.

Alla centralità strategica e alla stabilità dell’Iraq dovrebbero essere interessati anche gli Stati Uniti, sebbene Washington – dopo una guerra e un’occupazione militare durata circa un decennio con alti costi in termini sia economici (oltre 2.000 miliardi di dollari secondo il Senato americano), sia di vite umane (più di un milione di truppe, 4.500 soldati uccisi e più di 100 mila civili uccisi) – sembri aver fatto scivolare il Paese in secondo piano rispetto alle sue proprie priorità.

L’Iraq è oggi un Paese profondamente diviso, in cui tensioni e violenze settarie sono favorite da uno scenario regionale imprevedibile. La necessità di garantire la stabilità interna dell’Iraq è in effetti una condizione prioritaria per gli attori arabo-sunniti e per gli USA affinché si eviti un rafforzamento della possibile influenza di Teheran nel Golfo e nella regione mediorientale. Tuttavia per eludere un tale scenario è necessario che il Premier Al-Maliki favorisca un vero dialogo nazionale tra tutte le componenti etniche e religiose irachene in modo da permettere un reale processo di riconciliazione nazionale. Senza tali premesse lo spettro di una nuova guerra, o di una partizione, non è affatto un’ipotesi remota.