international analysis and commentary

La Fortezza Europa e il mare dei migranti

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Fortezza Europa: questa immagine evocativa illustra molto bene il fenomeno migratorio che investe il vecchio continente. Sull’argomento, nelle ultime settimane, è stato possibile leggere fiumi di retorica e qualche dichiarazione di principio universale, ma assai più arduo è stato trovare alcune informazioni che da sole potessero inquadrare il problema per quello che esso è, distinguendone le varie declinazioni: geografica, demografica, giuridica e infine politica.

È bene aver presente, innanzitutto, una mappa. L’Europa conta in questo momento quattro bastioni principali, tutti situati nel quadrante meridionale, innalzati per contenere l’immigrazione clandestina. Da ovest a est i quattro argini della fortezza sono così distribuiti: Spagna (nelle due enclave spagnole in territorio marocchino di Ceuta e Melilla), isola di Lampedusa, isola di Malta e infine Grecia (nella regione del fiume Evros al confine con la Turchia).

Da ciascuno di questi avamposti l’Europa, con cabina di regia nella tecnocratica Bruxelles, cerca di contenere il problema. Poiché l’immigrazione è un fenomeno di fatto inarrestabile, quando si chiude ermeticamente un varco (vedi Spagna, Malta o Grecia), i flussi ne cercano ovviamente di nuovi. È quindi molto probabile che la tragedia di Lampedusa abbia colto meno di sorpresa il governo Barroso di quanto abbia colto il governo Letta.

Suona infatti banalmente tautologica l’affermazione del riconoscimento della “dimensione europea del fenomeno”: i muri di Ceuta (8 km) e Melilla (12 km), ad esempio, sono stati eretti a fine anni Novanta e finanziati con 30 milioni di euro provenienti interamente dalle casse dell’UE. La stessa Frontex (Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione Europea) è stata costituita nel 2004, ma in nuce operava dal 1999, e quindi si avvicina ormai ai dieci anni di piena attività.

La risposta dell’Europa ai flussi migratori esiste dunque, e da almeno un decennio, ma è sempre la medesima: quella dell’indignazione momentanea, delle leggi nazionali figlie dell’emergenza, della militarizzazione dei confini e infine dei respingimenti.

A Ceuta e Melilla due muri dotati di telecamere a infrarossi e guardie armate hanno definitivamente chiuso l’accesso alla Spagna per tutti i migranti provenienti dalla fascia occidentale e subsahariana dell’Africa. Nei boschi all’ombra di questi muri migliaia di persone bivaccano, vengono scacciate dalla polizia di frontiera, a volte rimangono ferite e spesso uccise; è rimasto celebre il caso del 2005, che scosse le coscienze della sinistra iberica (un po’ meno di quella europea), quando con in carica il governo progressista di José Luis Zapatero l’esercito spagnolo aprì il fuoco sui migranti a Ceuta, uccidendone cinque e ferendone oltre cento.

Di Lampedusa abbiamo capito, in sostanza, che le operazioni della nostra marina si coordineranno con Frontex (circa 70 milioni di euro di budget annuale), che è appunto lo strumento principale del governo europeo in risposta, squisitamente passiva, al fenomeno dei flussi.

Malta è in una situazione analoga, con un assedio costante via mare inasprito ulteriormente dal conflitto siriano.

Evros infine, in termini di tempo, è l’ultimo muro eretto dall’Europa. A questa regione di confine tra Grecia e Turchia i migranti giungono per due direttrici: o a piedi dall’Asia (principalmente dal Bangladesh e dall’Afghanistan), oppure in volo (grazie alle linee low-cost) proprio dal Marocco ormai sigillato a Ceuta e Melilla per poi tentare un ingresso clandestino in Europa. E nel fiume Evros, tentando di aggirare il muro e le pattuglie di Frontex, i migranti muoiono annegati non diversamente da come annegano nel Mediterraneo.

La Grecia, già in profonda crisi sociale, è oggi un limbo nel quale i clandestini che sono riusciti a entrare non possono andare né avanti né indietro, perché la confusione giuridica europea è tale che risulta impossibile conciliare il diritto d’asilo con il reato di clandestinità, ma anche le espulsioni forzate con la legalizzazione degli irregolari. Un cortocircuito insomma: l’ottemperanza alle leggi nazionali violando quelle europee e viceversa.

Su questo sfondo, è cruciale soffermarsi sulle cause, o su alcuni aspetti di esse. Innanzitutto l’Europa è, sia come governo supernazionale sia come singoli stati, uno strategico partner commerciale di quasi tutti i paesi africani dai quali i migranti provengono e di molti paesi asiatici in via di sviluppo dai quali arriva la mano d’opera in eccesso che i paesi del Golfo non possono più assorbire. Girare troppo intorno al problema sarebbe quindi ipocrita. Spalleggiare in terra africana o asiatica – aree in esponenziale crescita demografica – governi corrotti e totalmente incuranti dei problemi sociali al loro interno per poter privilegiare accordi commerciali di breve durata porta inevitabilmente, nel medio e lungo periodo, a creare ancora più ingenti flussi migratori verso l’Europa. Giunti a questo stadio critico, l’unico baluardo rimane la repressione giuridica (reato di clandestinità) e quella fisica (i pattugliamenti marittimi, i centri temporanei d’accoglienza, i confini militarizzati e i respingimenti).

Un tema decisivo, e colpevolmente dimenticato, è quello che Giulio Marcon in un libro del 2002 descriveva bene grazie anche a un titolo illuminante: le ambiguità degli aiuti umanitari. Sino a quando enormi risorse andranno a beneficiare le strutture della cooperazione invece delle popolazioni in crisi, le cause del problema non saranno affrontate seriamente.

Il settore della cooperazione, per quantità di denaro intermediato, era già l’equivalente dell’ottava economia del mondo all’epoca del G8 di Genova del 2001, cioè agli albori del picco demografico che ha dato al fenomeno migratorio un impulso clamoroso, combinandosi agli effetti della globalizzazione. La cifra gestita dalla “galassia umanitaria” delle ONG era allora di 1.100 miliardi di dollari all’anno di fatturato. È sin troppo facile intuire, alla luce dei flussi attuali, quante di queste enormi risorse siano giunte nell’ultimo decennio ai legittimi destinatari e quante siano rimaste nelle mani dei “professionisti della solidarietà”.

Lo stato dell’arte attuale ci consegna così un’Europa assediata, colpevolmente protagonista di due pesi e due misure: da una parte un atteggiamento miope e levantino nei paesi in via di sviluppo (spesso ex colonie), che poi regolarmente perdono il treno della modernizzazione creando conflitti, sperequazioni e quindi migliaia di profughi; dall’altra parte, una cieca chiusura giuridico/poliziesca entro i propri confini che immette oltretutto nell’opinione pubblica occidentale i germi di una pericolosa intolleranza (o di una vuota retorica) verso il fenomeno.

Sarà quindi bene tenere sempre a mente le previsioni demografiche che, per l’Africa soprattutto, non lasciano spazio a dubbi: la popolazione del continente salirà prepotentemente dai 5,9 miliardi di oggi agli 8,2 del 2050. La Nigeria, verso la fine di questo secolo, avrà raggiunto la Cina e almeno altri cinque stati africani supereranno i 200 milioni di abitanti: Uganda, Tanzania, Etiopia, Niger e Repubblica Democratica del Congo.

Il 2015 inoltre sancirà il clamoroso fallimento dei Millenium Goals, il piano in otto punti varato dall’ONU nel 2000 per risolvere (entro i primi quindici anni del secolo, appunto) i problemi cronici del terzo mondo, a cominciare dalla povertà estrema e della fame – non solo in Africa ma anche in Asia occidentale, con inevitabili riflessi sui flussi migratori verso l’Europa.

In questa prospettiva, per i governi dei paesi che affacciano sul Mare Nostrum, tanto gli attuali quanto quelli che verranno, la sfida con Bruxelles non dovrà limitarsi a tenere i riflettori accesi sull’emergenza (in Commissione sanno molto bene, e da anni, cosa succede in quelle acque) ma di scardinare all’origine i meccanismi che creano migrazioni così imponenti. E cioè: assecondare la crescita economica africana e asiatica inducendo la democrazia interna e la responsabilizzazione delle élite regionali (evitando così anche collusioni imbarazzanti), moralizzare drasticamente il settore della cooperazione (ma i piani di Bruxelles in questi giorni sembrano andare esattamente in direzione opposta), e infine iniziare a smilitarizzare i confini.

Certo, si tratterebbe di un capovolgimento totale degli approcci culturali e delle politiche sinora adottate. Evento poco probabile. I governi quindi continueranno a navigare a vista, tentando di difendere passivamente la Fortezza Europa da un destino che sembra già scritto.