international analysis and commentary

La fine dell’ipocrisia

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Il giudizio della stampa internazionale, non solo di quella italiana, è unanime: gli europei hanno fatto una scelta “low-key”, di basso profilo.

Nominando il premier belga Van Rompuy a presidente del Consiglio e Catherine Ashton ad Alto Rappresentante della politica estera/Vice-presidente della Commissione, i governi europei hanno chiarito due punti: primo, che la politica “vera” resterà in mano a loro, resterà insomma affidata alla concertazione intergovernativa; secondo, che le famose nuove cariche di Lisbona sono interpretate con così grande prudenza da risultarne svuotate. Almeno in partenza.

I vincitori apparenti, dopo le decisioni di ieri, sono due: la coppia franco-tedesca, che mentre imponeva un rappresentante dei “Piccoli” al Consiglio (ma la storia comunitaria ci insegna che i rappresentanti dei piccoli sono sempre al servizio dei grandi) raggiungeva anche un compromesso riservato sui portafogli economici della Commissione e sulle nomine future (Euro-gruppo e Banca centrale europea); Lady Ashton, che forse non si aspettava un regalo simile da Gordon Brown, interessato a raggiungere un successo in Europa per poterlo rivendere a casa. Una casa britannica che sta andando così male, per i laburisti, da obbligare David Miliband – sarebbe stato lui il candidato naturale a “ministro degli esteri” europeo – a rinunciare a Bruxelles per restare impegnato nella preparazione delle elezioni. La cosa che colpisce è proprio questa: Londra ha ottenuto la carica più “pesante” prevista dal Trattato di Lisbona senza neanche bisogno di sacrificare le sue atout migliori. Che poi Lady Ashton sia una donna è stata di aiuto, per lei; e costituisce un progresso rispetto all’Euro-burocrazia. Ma questo non toglie la mancanza di esperienza e di peso politico.

Manuel Barroso, presidente della Commissione, è un terzo vincitore, by default: temeva infatti la nomina di persone di alto profilo, che avrebbero potuto oscurarne il ruolo (già non scintillante).

Più semplice ancora la lista degli sconfitti: Tony Blair, che non ha calcolato questo gioco al ribasso; Massimo D’Alema, candidato del gruppo socialista al Parlamento europeo ma non dei governi socialisti – a ulteriore riprova di dove stiano i pesi veri in Europa; e infine un’idea, l’idea che l’Unione europea possa diventare un attore unitario nel mondo. L’implicazione di nomine del genere, infatti, è che i rapporti bilaterali dei principali governi europei – con Washington, con Pechino, con Mosca – continueranno a prevalere sulla politica comune. La cosa non è certo nuova. Ma l’illusione infondata era che – messi di fronte alla realtà di un sistema globale in cui contano “size” e coesione, e il cui baricentro sta spostandosi verso il Pacifico – i governi europei decidessero di fare qualcosa di più. Così non è stato.

E cadute le ipocrisie, le possibilità sono solo due. O l’Europa nel suo insieme accetterà la leadership informale dei tre “Grandi” – ma questo è molto difficile. O i “Grandi” scopriranno abbastanza rapidamente che nessuno di loro è più in grado di esercitare un peso globale.

Le decisioni sui volti di Bruxelles non dimostrano solo la “ri-nazionalizzazione” in corso nelle dinamiche europee. Confermano anche che i principali governi europei non sono interessati al profilo politico internazionale dell’UE. Di fatto, continuano a pensare all’UE come a una sorta di “Grande Svizzera”: una entità eminentemente economica. Per questo, la carica della PESC rafforzata può anche essere spesa per compensare la Gran Bretagna (che è d’altra parte la nazione “indispensabile” in questo settore), tenendola invece ai margini di quelle posizioni che interessano davvero a Francia e Germania: i portafogli economici della Commissione, a cominciare dalla concorrenza; la gestione del Consiglio europeo (con una staffetta franco-tedesca al Segretariato). Mentre si annunciano, fra il 2010 e il 2011, cariche decisive per la gestione dell’area dell’euro.

E’ su queste cariche che l’Italia deve adesso concentrarsi. Dopo tutto, anche l’Italia può rivendicare quei meccanismi informali di “compensazione” attivati da Londra giocando e bruciando la carta Blair: non avendo ottenuto la nomina di D’Alema – diventato comunque un candidato nazionale –  il governo di Roma è in credito di una posizione futura. Se il gioco fosse lasciato interamente a Francia e Germania, sapremmo l’esito probabile: Christine Lagarde, Ministro dell’economia francese, alla guida dell’euro-gruppo, Axel Weber, presidente dalla Bundesbank, alla guida della Banca centrale europea. 

E’ uno scenario che penalizza il nostro paese. Se gioco intergovernativo deve essere, gioco intergovernativo sia: ma con l’Italia seduta al tavolo e decisa a giocare fin da ora la sua partita.